
Contagio come infortunio sul lavoro, ora si dissocia persino l’Inail

14 Maggio 2020
di Carlo Mascio
Lo avevamo anticipato in tempi non sospetti: equiparare all’infortunio sul lavoro – e non alla malattia – anche il contagio da Covid-19 che il lavoratore abbia contratto “in occasione di lavoro”, avrebbe creato caos e, soprattutto, rallentato la riapertura effettiva delle aziende. E andando a spulciare i dati diffusi dall’Inail nel suo Report del 30 aprile 2020,il quadro è abbastanza chiaro: al 21 aprile 2020 sono state segnalate all’Inail 28.381 denunce di infortunio a seguito di Covid-19. In pratica, una denuncia di infortunio su quattro. Prevedibile, no? Non tanto perché il lavoratore ci voglia “marciare” quanto per il fatto che siamo ancora nel bel mezzo di una pandemia e i contagi, benché diminuiti, sono ancora possibili. Per di più senza possibilità di accertare con esattezza luogo e condizioni dell’avvenuto contagio.
Alla luce di ciò, non è difficile immaginare che molti imprenditori facciano oggettivamente difficoltà a riaprire e chi ha riaperto può solo affidarsi al Cielo per scongiurare la responsabilità penale che grava sulla sua pelle in caso di contagio di un loro dipendente. Questo perché, lo ricordiamo, l’art.42 del decreto CuraItalia prevede che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (Sars-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato”. Ciò comporta che in capo al datore di lavoro gravi una responsabilità penale per i reati di lesioni (art. 590 c.p.) e omicidio colposo (art. 589 c.p.), aggravati dalla violazione delle norme antinfortunistiche, laddove non abbia adottato le misure necessarie a prevenire il rischio di contagio, cagionando così la malattia o morte del lavoratore.
L’assurdo è tutto qui: anche se il datore di lavoro ha adottato diligentemente tutte le misure di sicurezza previste dalla nuova normativa per prevenire il contagio da Covid-19, in caso di infezione “in occasione di lavoro” risulta ugualmente responsabile.
Su questa vicenda è evidente che i sindacati abbiamo giocato la loro partita cercando di sbilanciare le tutele tutte a favore del lavoratore. Ma se la tutela della salute è sacrosanta, in una pandemia e in crisi economica ad essa connessa, va tutelato anche il datore di lavoro. Pena la chiusura dell’attività e la perdita di lavoro per i dipendenti. Detta così, sembrerebbe proprio una barzelletta. Purtroppo è la realtà.
Fortunatamente qualcuno se ne accorto. “E’ un problema non da poco che rischia di bloccare la riapertura di molte piccole o medie imprese” commenta il Presidente del Consiglio nazionale del’ordine dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, sulle colonne del Corriere della Sera di ieri che, sul tema ha dedicato una intera paginata. Dunque, secondo il parere di alcuni esperti, basterebbe aggiungere una sorta di “scudo penale” a favore del datore di lavoro una volta accertato che abbia rispettato tutte le misure di sicurezza. E anche il Direttore generale dell’Inail, interpellato sempre dal Corriere, non sembra affatto contrario: “Non sembra una scelta irragionevole – meno male, aggiungiamo noi! – L’Istituto sarà a disposizione del decisore politico per suffragare una scelta del genere”.
Ora quindi è tutto chiaro: questa norma si può cambiare. Si deve cambiare. Il gioco al massacro nei confronti dei “padroni” è roba superata che non può essere riproposta. Siamo in pandemia e sull’orlo del collasso economico. Se il Governo non agisce, alla fine non ci saranno lavoratori da tutelare. I sindacati sono avvertiti.