Contro gli imbrogli sui test, Mussi elimina i test e lascia gli imbrogli

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Contro gli imbrogli sui test, Mussi elimina i test e lascia gli imbrogli

13 Settembre 2007

Chi pensava che a rendere Mussi uno dei peggiori ministri dell’Università fosse il suo occuparsi più delle vicende dei Ds che del ministero e dei suoi problemi, leggendo le recentissime sue dichiarazioni sul numero chiuso ha più di un motivo per ricredersi.

La vicenda, nota ed endemica, è quella delle “irregolarità” che puntualmente si verificano ai concorsi di ammissione in alcune facoltà, e specificamente a medicina e chirurgia, odontoiatria e protesi dentarie.

Cosa il “genio italico” non sia riuscito ad escogitare per superare il concorso d’ammissione a numero chiuso evitando di studiare ha dell’incredibile. Si è visto e saputo di tutto. Il solito spettacolo indecoroso frutto del familismo corporativo e della vocazione tutta italiana a non badare a spese pur di aggirare le regole.

Ma la reazione a tali illeciti amministrativi e penali non può essere quella annunciata da Mussi: vale a dire la riduzione del numero delle facoltà e delle classi a numero chiuso e la richiesta agli atenei di render conto “delle ragioni per cui è stata disposta, per determinati corsi di laurea, la programmazione a livello locale”. In altre parole, di ciò che ha consentito alle università di introdurre limiti all’accesso.

Non si starà a dire che con queste dichiarazioni il ministro sembra voler limitare quella fantomatica autonomia universitaria che intesa sovente come “licenza” ha alora prodotto più danni che vantaggi, ma che se egli fosse stato altrettanto severo nel controllare il selvaggio proliferare di classi senza capo, coda, docenti degni di questo nome e talora pure frequentanti, certamente avrebbe fatto opera molto più meritoria. Dando a studenti e famigli un segnale di serietà: le regole che fissano i requisiti che devono avere le classi esistono ed il ministero le fa rispettare.

li immancabili e desolanti brogli, nonostante la loro frequenza e diffusione, non devono infatti far dimenticare i vantaggi del numero chiuso. Può darsi che siano vantaggi soltanto teorici perché è ben noto che la casta dei professori universitari italiani riuscirebbe a peggiorare e a trasfigurare nella sua applicazione anche la migliore delle riforme possibile, ma non bisogna generalizzare e, soprattutto, bisogna incoraggiare gli esempi virtuosi sperando che nel tempo vengano imitati perché alla lunga paganti in termini di prestigio degli atenei e perché esistono ancora dei docenti ai quail non fa piacere insegnare in un’università o in una facoltà che non godono di buona fama.

I vantaggi del cosiddetto numero chiuso sono sostanzialmente riducibili a due. Il primo è che dovrebbe consentire agli atenei di assicurare una didattica ed una logistica adeguate evitando di dover cercare di far fronte ad impreviste torme di studenti per i quali non sarebbero sufficienti neanche i servizi igenici, e che si iscrivono ad una classe soltanto perché richiamati dal tam-tam che è “facile”, o perché non hanno ancora avuto il tempo di decidere cosa fare da grandi. Il secondo è che lo studente che volontariamente si sottopone ad una prova di ammissione dà prova di essere motivato a seguire quel corso. Ciò che ai fini del risultato finale (frequenza, preparazione e laurea) vale per lo meno quanto l’aver avuto la possibilità di fruire di una didattica e di una logistica semplicemente adeguate. E se si tiene conto del fatto che quest’ultima circostanza non è affatto scontata, ci si può fare un’idea di quanto la “vocazione” conti.

Il fatto che il sistema di ammissione sia criticabile e che ogni volta dia luogo a discussioni e ad irregolarità non scalfisce minimamente questi suoi vantaggi. Anche perché difetti ed irregolarità non sono che il frutto del fatto che l’italica propensione a voler acquisire un titolo di studio a buon prezzo (e spendere anche varie migliaia di euro per accedere irregolarmente ad una corporazione può essere comunque un affare) può essere scalfita soltanto abolendo il valore legale del titolo della laurea e liberalizzando l’accesso alle professioni. Spingendo gli atenei ad una concorrenza virtuosa fatta di buona didattica, buone strutture e buona ricerca, e non di demagogici richiami a quell’articolo 34 della Costituzione che dovrebbe garantire il diritto allo studio e che invece finisce per garantire il diritto ad un “titolo di studio”.