Contro il rischio di EuRussia serve un Nuovo Patto Atlantico

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Contro il rischio di EuRussia serve un Nuovo Patto Atlantico

01 Maggio 2010

Mentre il Sudest asiatico è concentrato sullo sviluppo economico, Europa e Russia sono bloccate da infiniti nodi politici, col risultato di uno scacco matto perpetuo. Oggi a Shanghai si inaugura la più grande Esposizione universale di sempre. A Bruxelles invece ancora non si sa che pesci prendere per risolvere il default finanziario di Grecia e Spagna. La Russia ottiene risultati: si pensi al successo del  gasdotto South Stream, al quale comparteciperanno, oltre all’Eni, anche i francesi di EDF. Ma l’economia russa vince solo grazie a una strategia politica.

Il nodo europeo tra Russia e Stati Uniti è sempre la Germania.

E’ pur vero che il congressista americano Bill Delahunt, responsabile della Commissione Esteri sull’Europa, sostiene che “non ci possono essere relazioni tra USA e UE senza la Russia”, ma l’ipotesi non trova mai sbocchi (EU-Russia centre).

Il punto è che la Germania da sola non ha la forza di sostenere la volta di questo nuovo cielo, come il titano Atlante. Servirebbe l’Europa.

Qual è il quadro geopolitico, partendo dalla Russia?
1. Arnold Toynbee in Civilisation on trial (Oxford press, 1948) sosteneva che i russi non fanno parte della civiltà occidentale ma della sua consorella bizantina. Questo dualismo si è sempre affacciato, dalle invasioni tatare, all’islam e ai tentativi di Napoleone e Hitler. La Russia negli ultimi cinquecento anni è stato un “impero sovrano” mai conquistato militarmente da potenze straniere. La sconfitta del 1989 ha colpito la dittatura antimoderna del comunismo, ma non la Santa Russia, che anzi è potuta risorgere dalle ceneri marxiste, guidata dalla chiesa ortodossa. Inoltre l’impero russo è sempre stato espansivo: Mosca non si è mai associata ad alleanze militari in cui non fosse la potenza egemone, esclusa quella – tattica e de facto – con gli angloamericani tra il 1941 e il 1945.

2. Mosca (e l’Europa) è sempre al bivio tra riformatori e nazionalstatalisti. Il presidente Medvedev è un esponente dei primi, identificati nei civiliki, la upper-class moscovita fatta di imprenditori, intellettuali e liberi professionisti. Putin è invece un esponente dei siloviki, termine derivato da Silovye Struktury (Silovye= forza). La Duma e i partiti attuali sono una copertura, ciò che conta sono gli “Atti di forza” all’interno del Cremlino, dove gioca sempre l’unico braccio operativo di un impero esteso da Berlino allo Stretto di Bering e dal confine cinese all’Artico: l’altro ieri la Ceka, ieri il Kgb, oggi l’Fsb.

3. Due anni fa, nel corso del suo insediamento, Medvedev delineò dodici riforme. Alcune di queste sono state mantenute ma rimane da definire la questione del trasferimento di potere dal Cremlino alla Duma, per mezzo di un pluralismo partitico, culturale e religioso che oggi è inesistente. Al di là della Chiesa ortodossa, vige l’Indifferentismo alla Oblomov, fatto di alcol e sfaldamento delle famiglie e delle nascite. A sud cercano di imporsi altre culture monolitiche, come il Califfato del Caucaso. Nel rinnovamento politico potrebbe rientrare Gorbacev (a capo di un partito menscevico?).

4. Di fronte a ciò la Russia (crescita prevista per il 2010: +5,5%) sta per entrare nell’organizzazione internazionale del Commercio (WTO).

Medvedev sostiene la necessità di far uscire la Russia dal neofeudalesimo, là dove alla coltivazione collettiva delle terre – con l’industria pesante statale – si è sostituita l’estrazione dei prodotti del sottosuolo: gas e petrolio. Secondo Medvedev si tratta invece di creare un sistema industriale privato  di medie dimensioni: sul modello americano, se non su quello padano.

“Dobbiamo continuare a trascinarci un’economia basata sulle materie prime, una corruzione cronica, il vecchio vizio di fare affidamento sullo Stato, sul mondo esterno, su qualche "onnipotente dottrina", su quello che volete, su chi volete ma non su noi stessi?”, queste le parole kennediane di Medvedev.

5. Mosca allarga la sua influenza nell’Est Europa: dopo l’unione doganale con la Bielorussia, è arrivato l’accordo sulla flotta del Mar Nero, che frutterà all’Ucraina uno sconto del 30% sul prezzo del gas.

Italia e Germania, per ragioni geografiche, sono tra i primi interlocutori del rinascente impero russo.

Gli accordi presi nel recente incontro tra Putin e Berlusconi sono gli ultimi di una lunga serie, ed ENI e Gazprom pensano di estendere la loro collaborazione anche in Libia e in Africa.

La Germania resta la maggiore esportatrice di merci in Europa, il che le ha permesso di gestire il riassorbimento della Germania comunista ed espandersi verso la stessa Russia, dove i tedeschi sono coinvolti nella realizzazione della Nuova Via della Seta ferroviaria, una TAV dedicata al trasporto di merci dalla Cina alla Germania, da  affiancare alla Transiberiana. Il progetto, cogestito dalla Siemens AG, si inserisce nel riammodernamento delle ferrovie russe, un colosso da 1,2 milioni di dipendenti, ma in realtà il progetto avrebbe conseguenze geopolitiche spaventose (crollo dei trasporti via mare e default del Mediterraneo, spaccature nella UE, ulteriore debordamento della Cina nella Siberia russa).

Tuttavia la Germania – da sola – non è in grado di supportare nemmeno la crisi greca, in cui si è dovuto reinserire il FMI “americano”, un segnale preoccupante per l’Unione Europea, sospesa tra derive euromediterranee, Eurussia e Nuovo Patto Atlantico.

Un nuovo accordo atlantico sarebbe diverso dalla Nato militare. Si tratterebbe piuttosto di delineare un’economia integrata tra Europa e Nord America, il che servirebbe a controbilanciare la crescita della Cina e delle altre tigri asiatiche.

Si tratta di scelte decisive, di fronte alle quali l’Europa dovrebbe presentare un profilo unitario che dimostra di non avere.

Per ricostruire l’unità transatlantica Obama ha bisogno che gli europei concedano dei vantaggi, in cambio dell’apertura dei mercati. Invece lo stop al processo di Doha ha bloccato le liberalizzazioni, proprio mentre il multilateralismo commerciale stava diventando il volto buono del multilateralismo politico, sempre fallito e sempre predicato. In ogni caso, per la Germania e l’Europa è finito il tempo di Giano bifronte.