Contro l’assenteismo Brunetta non poteva che usare le maniere forti
24 Luglio 2008
Nel 2006 un dipendente pubblico a tempo indeterminato ha lavorato in media 223 giorni, ha goduto di 27 giorni di ferie, 10 feste “comandate”, 52 domeniche e altrettanti sabati. Anzi, avrebbe dovuto lavorare 223 giorni, perché nel frattempo si è assentato dal lavoro per altri 17 giorni, di cui 10 e mezzo per malattia. Costo complessivo del dipendente, tra salario, contributi e tasse: 47mila euro, 211 euro per ognuno dei 223 giorni.
Le medie vanno prese con accortezza: i 17 giorni di assenza diventano 21 negli enti locali e 25 nei ministeri, mentre scendono significativamente nelle forze di polizia. Ogni amministrazione pubblica, poi, è zeppa di bravi e laboriosi dipendenti che si fanno carico delle proprie mansioni e di quelle altrui. Molti di questi non si ritrovano nei numeri di cui sopra, perché lavorano di più e vanno meno in malattia. Ma non è la statistica a mentire, sono alcuni loro colleghi a barare.
I 10 giorni e mezzo di malattia per ogni dipendente diventano, a livello aggregato, 35 milioni di giornate sottratte al lavoro: una enormità, che vale 7,5 miliardi di euro (quando Montezemolo parlava di 14,1 miliardi, includeva tutte le assenze, anche quelle per maternità e congedi parentali, che è giusto tener fuori, trattandosi di welfare).
In questo esercito di giorni d’assenza, vi sono molte malattie “reali”, ma almeno altrettanti malanni fasulli: se pure ci accontentassimo per il pubblico impiego di un tasso di assenteismo pari a quello del comparto delle grandi aziende industriali, il risparmio per le casse dell’erario ammonterebbe comunque a 4,5 miliardi di euro. Potremmo abolire l’Ires in tutte le regioni del Sud con questi soldi.
Ovviamente, la riduzione dell’assenteismo non comporta in sé maggiori risparmi, perché il fannullone – tornato alla scrivania – va comunque pagato. E non si può nemmeno sperare che il ritorno al lavoro di tanti finti malati comporti una crescita proporzionale della produttività della macchina amministrativa. Ma recuperare almeno un terzo dei 35 milioni di giornate di lavoro servirebbe –ad esempio – a rendere ancora più severo il blocco del turn-over, a beneficio dei conti pubblici.
E’ in questo quadro “emergenziale” che va collocata la lotta all’assenteismo intrapresa dal ministro Brunetta, contro cui si sono già levati gli scudi sindacali.
Si dice, ad esempio, che l’obbligatorietà della visita fiscale al primo giorno di malattia costerà troppo. Se i 10,5 giorni di assenza corrispondono a 3 malattie di 3 0 4 giorni l’una, il costo dell’intervento è di 400 o 500 milioni (la pubblica amministrazione non paga le visite fiscali alle Asl, ma misuriamo il costo in base ai prezzi al privato delle visite), dieci volte meno del valore dell’assenteismo. Se, grazie all’effetto deterrenza che la stessa previsione normativa produrrà, si dovessero ridurre le assenze, la spesa sarebbe ancora inferiore. In più, esso sarà in buona parte coperto dal blocco della remunerazione accessoria per i periodi di malattia inferiori ai 10 giorni.
Ancora, c’è chi – come il prof. Ichino – dice che la linea dura non paga e invita a sostituire la logica sanzionatoria con una responsabilizzazione dei dirigenti. “Più che dettare nuove procedure e sanzioni – dice il senatore del Pd – meglio fissare ai dirigenti pubblici obiettivi precisi e licenziarli se non li raggiungono”. Nei prossimi mesi, è auspicabile che il ministro Brunetta tenga conto dell’utile indicazione di Ichino, ridisegnando il sistema degli incentivi.
Si dice, infine, che Brunetta abbia ambizioni da moralizzatore. E lo si dice scandalizzati, come se questo obiettivo fosse deprecabile: eppure proprio di questo si tratta. Di una moralizzazione. Più che in termini puramente economici ed efficientistici, la lotta all’assenteismo è una battaglia di equità, tra chi lavora e non lavora e tra lavoratori pubblici e privati.
In uno stato democratico, c’è un “patto sociale” che lega i contribuenti agli impiegati pubblici: io pago le tasse, tu lavori per noi tutti; questa tua condizione di civil servant impone delle responsabilità, che io provvederò a remunerare adeguatamente.
Da qualche decennio, il patto si è rotto e va rinsaldato. E non c’era altro modo di farlo se non con una brusca inversione di rotta. Al bastone Brunetta farà seguire la carota, ma sarà solo per i “veri” civil servant.