Contro quel che i cattolici chiamano Illuminismo e noi liberali scientismo

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Contro quel che i cattolici chiamano Illuminismo e noi liberali scientismo

Contro quel che i cattolici chiamano Illuminismo e noi liberali scientismo

02 Maggio 2010

La ragione del mio accordo di fondo, ma sostanziale, con le tesi che Belardinelli espone e sostiene efficacemente nel suo libro  "L’altro Illuminismo. Politica, religione e funzione pubblica della verità",
(Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, pp. 191, euro 19,0) consiste nel fatto che da posizioni diverse ma forse complementari condividiamo un identico obiettivo polemico al quale, per di più, attribuiamo gli stessi errori filosofici e le stesse nefaste conseguenze morali, sociali e politiche.

Tale obiettivo polemico è definito da Sergio “Illuminismo”, mentre io, che pure da “austriaco-straussiano” non nutro soverchie simpatie per l’Illuminismo, preferisco definirlo Scientismo. Comunque sia, e in qualsiasi modo lo si voglia chiamare, siamo di fronte al genitore dei quattro disastri del ‘900: il totalitarismo, la teoria della pianificazione, il relativismo, l”ateismo di massa’ o ‘laicismo’. Si tratta indubbiamente di una tradizione articolata, e, se si confrontano Lumières, Aufklärung ed Enlightenment, forse anche poco omogenea, che comunque da secoli, in forme diverse, esercita un’influenza determinante nella cultura filosofica, politica ed economica occidentale con innegabili e palesi ripercussioni sulla sua cultura civile.

Ad essa, a seconda che se ne sia estimatori o critici, si attribuisce comunemente quasi tutto il bene o il male dell’Occidente. Ad iniziare da quella insostenibile distinzione tra sfera privata e sfera pubblica, tra Cesare e Dio, che ha dato vita ad un laicismo al quale, nella sua forma per così dire ‘degenerata’, Belardinelli attribuisce gran parte di quelle idee contemporanee che hanno portato ad una sorta di legittimazione dell’aborto e quant’altro.

Va bene. Sono anche in questo caso d’accordo perché ritengo che quella distinzione fosse un artificio per cercare di sterilizzare le conseguenze politiche delle guerre tra confessioni cristiane. Un fragile artificio che poteva avere qualche successo in un’epoca in cui lo stato si occupava di poco, ma che è assolutamente insostenibile ed impraticabile nell’epoca della democrazia di massa che vuole che lo stato si occupi di tutto. E questo perché è impensabile che i fini e le aspettative individuali e sociali, e dunque le domande che si rivolgono alla politica, siano indipendenti dalle credenze religiose dei cittadini elettori.

Ma essendo entrambi ‘professori’ ed amici (ciò che credo mi possa esimere da banali lodi al volume), un po’ per ‘onesto divertimento’ e un po’ per vanità, cerco ora di mettere in luce ciò che mi avrebbe spinto ad affrontare il problema in un modo parzialmente diverso anche se, devo ammetterlo, facendo tesoro di quanto ha scritto con la consueta intelligenza Belardinelli.

Come ci sono varie forme di Illuminismo, così ci sono varie forme di ‘laicismo’ –e Belardinelli lo sa piuttosto bene– e non a tutti i laicismi sono attribuibili le stesse responsabilità e gli stessi misfatti. Per di più, personalmente, sono convinto che il laicismo dell’”ateismo d’élite” sia meno meno nefasto di quello dell’”ateismo di massa”; vale a dire di quello delle masse democratiche che non si rendono conto di coltivare una forma di religione “fai da te”, sorretta e riscattata dall’amore, che sfocia nel relativismo.

Ma nel suo libro Belardinelli sembra dimenticare due cose.

La prima è che quella distinzione tra sfera pubblica e sfera privata era anche conseguenza del fallimento politico del Cristianesimo medievale e rinascimentale, e che nell’eclisse moderna del tomismo dopo la Riforma, e soprattutto dopo la Seconda Scolastica, la Chiesa Romana non ebbe la forza di elaborare nessuna filosofia politica, o dottrina sociale, che potesse contrastare la diffusione di una filosofia politica moderna che, nelle sue componenti più innovative e destinate a maggior fortuna, era, non dimentichiamolo, sostanzialmente anti-cattolica, se non addirittura atea. La grande influenza della Seconda Scolastica nel campo della filosofia del diritto, della teoria economica e della ‘dottrina dello stato’, purtroppo non dette vita –e stento a spiegarmene la ragione– ad una filosofia e ad una economia politica ‘competitiva’ col nascente costituzionalismo (non ancora ‘liberale’), con l’idea di economia politica che si andava affermando, e soprattutto con la geniale integrazione smithiana di ‘costituzionalismo’, morale e mercato.

Per usare una metafora economica si potrebbe dire che cessata con la Riforma la condizione di monopolio nel campo della produzione delle idee, la Chiesa cattolica non ha saputo essere competitiva sul ‘mercato delle idee’ e che per due cruciali secoli si è arroccata in una nicchia. Da cui cerca di uscire affrontando l’handicap costituito dal fatto che le regole di significanza e di comunicazione (ma ci tornerò alla fine) erano già state stabilite da altri.

La frattura tra Cattolicesimo ed Europa ‘laica’ nasce allora e, nonostante la buona volontà e l’ingegno profuso dai Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI, è difficile da ricucire. Anche perché la ‘sorte’ (se si parlasse in questo caso di Provvidenza direi che ha giocato un brutto scherzo ai ‘suoi’) ha voluto che nel momento in cui tale frattura sembrava ricomponibile, vale a dire subito dopo il 1889, l’Occidente è stato colto da quella rivoluzione bioetica, biopolitica, sessualistica, etc, che ha di nuovo e drammaticamente allungato le distanze.

La seconda è che il ‘laicismo insano’ si sviluppa soprattutto nell’Occidente che ha fatto propria la categoria interpretativa della secolarizzazione, vale a dire in quel mondo culturale che ha secolarizzato la Provvidenza in ‘filosofia della storia’ o ‘storicismo’. Di cui il legame, che mi sembra Belardinelli trascuri, tra l’Illuminismo continentale, lo storicismo e l’esito del laicismo nel relativismo.

In quel conteso si sviluppa quell’Illuminismo laicista che porta poi alla mentalità dominante nei nostri giorni e dalla cui morsa la Chiesa Romana cerca di sfuggire elaborando, ma purtroppo soltanto a partire dalla Rerum Novarum, una dottrina sociale adeguata ai tempi e alla contingenze. Un ritardo iniziale che però la mette nella scomoda e poco fruttuosa, funzione di inseguitrice.

Il libro è così da collocare nell’ambito di un progetto culturale che cerca di superare un ritardo che è più nell’immaginazione popolare, che filosofico. Un ritardo che Belardinelli affronta con un approccio diverso dal modernismo e da quell’ideologia post-conciliare che avevano cercato disperatamente un compromesso coi tempi del mondo. Invano e con risultati talora disastrosi.

Basti pensare agli esiti del pensiero di Maritain nel mondo ed in quello cattolico in particolare, che ha portato la Chiesa a parlare lo stesso linguaggio dei “diritti umani” senza rendere ben comprensibile quale fosse la sua interpretazione di quei diritti ed in che cosa, esattamente, si differenziasse da quella dei ‘Liberals laicisti’.

Prima di passare ai motivi di disaccordo con Belardinelli vorrei però dire che la critica all’Illuminismo-Scientismo non è prerogativa del Cattolicesimo Romano. Quella che, ad esempio, sviluppano pensatori come Hayek, Popper, Strauss, quanto a crudezza non ha niente da invidiare alla critica cattolica che Belardinelli riprende e sviluppata con acume ed indubbia competenza e perspicacia.

Ma Belardinelli, come del resto altri cattolici romani, sceglie di non cimentarsi direttamente con quella critica alla modernità scientistica (che comunque non è identica neanche in Hayek e Popper e che ha in Strauss caratteristiche ancora diverse) e di  confrontarsi invece, sia pure in termini critici, con personaggi come Habermas Luhmann ed Arendt, e col tentativo di elaborare una ‘teoria cattolica della democrazia’ che riesca a fondere la ‘verità’, e il suo ruolo sociale, con la libertà e con le mutevoli aspettative individuali.

Su questo suo tentativo, che non è per nulla debole quanto a cultura filosofica, incombe però quel rischio di fallimento che grava su tutti i tentativi di riportare al significato originario, o di correggerne l’interpretazione, concetti che il successo storico ha condannato per lo meno ad una irriducibile pluralità di accezioni.

Che la cultura filosofico-politica del cattolicesimo romano non abbia niente da invidiare alle altre culture contemporanee è un fatto –e chi ne vuole una prova pensi a Schall, Roman Catholic Political Philosophy. Ma quella resurrezione è, a mio parere, legata anche alla scelta degli interlocutori.

E a me, e chiedo venia per la franchezza, quelli scelti da Belardinelli riescono a dire ancor meno di quanto dicano a lui. Tanto che penso che ci sia poco da ricavarne, e che tale confronto, anche se, e lo ripeto critico, rischia di essere percepito dall’opinione pubblica secolarizzata, illuministica e relativistica (la quale crede che per “fare filosofia politica oggi” sia doveroso confrontarsi con quelli che essa ritiene siano i più importanti filosofi politici contemporanei, e che se nell’indice non trova i nomi di Rawls, Habermas, Arendt, e qui mi fermo, passa ad altro) come un loro ulteriore accreditamento.

Il mio dissenso su questi pensatori, quindi, nasce e si sviluppa soprattutto dal fatto tale insistenza può lasciar pensare che Belardinelli identifichi la riflessione filosofica contemporanea con le varie espressioni dell’”Illuminismo-Scientismo”, con quelle che mi sembrano, tutto sommato, figure di secondo piano; con un concetto di modernità inteso essenzialmente nei termini di quell’altra dubbia categoria filosofica che è la ‘secolarizzazione’.

Categoria dubbia (ma che un po’ a Belardinelli piace) perché la sua adozione finisce in una serie di pericolosi errori come quello di considerare, sulla scia di Schmitt, la filosofia politica come una secolarizzazione della teologia politica, e, più in generale, la Filosofia come una forma secolarizzata di Rivelazione.

Belardinelli rischia così di restare vittima della trappola di quella modernità che si intende come secolarizzazione. Una categoria che a mio avviso, ma sulla scia di Strauss, spiega poco e male, e che trasferisce pregiudizi protestanti tedeschi alla storia della cultura filosofica e politica occidentale facendone il principale canone interpretativo.

Perché, allora, non prendere in considerazione tanto il fatto che il segreto della vitalità e dell’identità dell’Occidente è certamente dato dal confronto e dalla tensione tra Filosofia e Rivelazione, non dalla riduzione della prima ad ancilla theologiae, quanto il fatto che la Filosofia non può essere riduttivamente intesa come la ‘filosofia tedesca’ che è una forma secolarizzata della teologia protestante: la madre del relativismo.

Ovviamente voglio essere polemico perché il dibattito con Belardinelli, mi piace e mi gratifica, e perché so che comunque imparerò qualcosa e che certamente non perderò la sua amicizia.

E in questa prospettiva voglio esagerare dicendo che Belardinelli, a sua volta, esagera con l’uso della categoria e del termine secolarizzazione senza prendere in considerazione l’ipotesi che sia proprio la secolarizzazione ad aver prodotto i mali che denuncia. Mali dai quali egli vuole sfuggire ‘restaurando’ una cultura filosofica, morale, economica e politica, la quale invece, a mio modestissimo avviso, potrebbe avere maggiore possibilità di successo se potesse liberarsi della categoria interpretativa della ‘secolarizzazione’.

Per dirla con parole più semplici, perché dare importanza al fatto che in tarda età Habermas riconosca che la religione abbia anche una funzione pubblica, e al fatto che sia diventato meno intransigente circa le modalità in cui dovrebbe esprimersi? Si tratta veramente di una cosa così importante ed innovativa?

Quel che in questo libro di Belardinelli (ma non in altri) mi sembra manchi è allora il confronto con altre componenti della modernità. E ciò induce anche a chiedersi quale sia il rapporto tra Cristianesimo e secolarizzazione, ovvero se esso non sia ora vittima di qualcosa che ha coltivato nel tentativo di mostrare che tutta la cultura occidentale, quella che alcuni definiscono la “tradizione giudaico-cristiana”, derivava, se non altro in forma appunto ‘secolarizzata’, dal Cristianesimo. Possiamo veramente capire la modernità nel suo insieme se dovessimo dimenticare che la secolarizzazione è figlia naturale del Cristianesimo?

Purtroppo, ma non del tutto inaspettatamente, col tempo, quel nobile compromesso con la filosofia classica (nella quale però non dobbiamo assolutamente dimenticare che tutti i principali concetti della filosofia politica erano già definiti) che ha consentito a Roma di presentarsi come sintesi e superamento Atene e Gerusalemme si è rivelato come la ‘trappola della secolarizzazione’ nella forma della scomposizione del Cristianesimo e, a sua volta, del suo superamento nel sistema della filosofia della storia secolarizzata di Hegel in cui, chi ha respirato l’aria della filosofia e della teologia tedesca, rischia, suo malgrado, di rimanere impigliato.

Dunque, e per chiudere, sono del parere che la soluzione del problema che oggi investe la cultura politica cattolica possa trarre poco vantaggio da un confronto con pensatori abbondantemente coinvolti nella modernità laica di stampo illuministico-scientistico.

E nel ringraziare Belardinelli per averci risparmiato, per lo meno, un confronto con Rawls, gli rivolgo un ultimo invito: spieghi come e perché mai i rawlsiani liberal, imbevuti tanto di relativismo scientistico quanto di ‘bene comune’, di diritti umani, di ‘giustizia sociale’, di orientamento etico del mercato e di sua finalizzazione al bene comune, si sono infine, anche loro, innamorati di Habermas? Perché la Chiesa cattolica usa in politica il loro stesso linguaggio limitandosi a dare (e quando ci riesce) significati diversi di quei concetti?

In questa direzione temo non si vada da nessuna parte; soprattutto perché è estremamente difficile ribaltare il significato che di quei concetti ha dato l’”altro Illuminismo”, e che è, ormai e purtroppo, quello d’uso comune. Di modo che la differenza tra la dottrina sociale cattolica e la filosofia sociale dell’Illuminismo relativistico liberal, viene percepita ridursi a differenti opinioni sui temi della bioetica, dell’aborto, della gestione della sessualità e della biopolitica. Ad una percezione di diversità di ‘opinioni’ riguardo a questioni che a troppi, ormai, appaiono purtroppo secondarie rispetto ai temi della giustizia sociale e dei diritti umani.

Termino così rivolgendo a Belardinelli la stessa critica che Strauss rivolse a Burke. La sua critica alla modernità illuministica mi sembra debole proprio perché, come il conservatorismo di Burke, è troppo intrisa di modernità. Avrei preferito sia un ritorno a Taparelli d’Azeglio (fondatore della “Civiltà Cattolica”, autore del Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, e coniatore dell’espressione “giustizia sociale”, ovvero di quella che è forse l’unica invenzione lessicale cattolica nel linguaggio politico contemporaneo, e che è stata ‘scippata’ e forse anche deformata dai Liberals), ovvero ad un cattolicesimo che non ha remore a cercare e a trovare in se stesso ciò che lo rende competitivo nel mercato delle idee (e che non a caso produsse la Rerum Novarum), sia un più esteso confronto con altre tradizioni filosofiche, magari risolutamente atee, ma, proprio per questo, non soggette al fascino della secolarizzazione.