Cosa c’è dietro la nazionalizzazione dei fondi pensione argentini
23 Ottobre 2008
Sulla nazionalizzazione delle pensioni che, decisa dal governo di Buenos Aires, ancor prima di essere approvata dal Congresso ha già fatto precipitare le Borse di tutta l’America Latina si deve innanzitutto ricordare che è avvenuta, appunto, in Argentina. Cioè, in un Paese dove già il default dei suoi bond lasciò al verde un bel po’ di piccoli risparmiatori, compresi 350.000 italiani; e dopo che d’altra parte un precedente governo aveva addirittura impedito alla gente di prelevare in banca dai propri stessi depositi. Insomma, una cultura in cui agiscono logiche anche molto peculiari. Detto ciò, c’è però anche un qualcosa che riguarda più in generale il dibattito che sta agitando l’intero pianeta in questi tempi di crisi: fine del capitalismo? Ritorno dello Stato? E a che prezzo?
Lasciamo perdere il fatto che la gran parte degli interventi fatti in queste ultime settimane invece di migliorare la situazione sembrano averla aggravata: ultimissimo, il caso del governo del Brasile che, invece di creare fiducia dando alle due banche pubbliche Banco do Brasil e Caixa Economica Federal la possibilità di acquisire partecipazioni in istituzioni finanziarie private, ha fatto invece precipitare l’indice Bovespa del 10%, con conseguente sospensione della Borsa di San Paolo. Resta sempre il beneficio del dubbio, che se l’intervento non ci fosse stato, avrebbe potuto andare peggio. Se vogliamo metterla in parabole, l’essenza del dibattito se è meglio lo Stato o il mercato in economia è strettamente analogo all’altro dibattito se è meglio l’acqua fredda o calda nelle docce. Alla maggior parte della gente piacciono le docce calde; alcuni ritengono invece le docce fredde corroboranti; dalle terme dell’antica Roma alla sauna finlandese, c’è stato chi ha preferito l’alternanza ravvicinata tra i due estremi; e la risposta dipende evidentemente anche da clima e stagioni.
Fuor di metafora: un intervento pubblico a sostegno del cinema in lingua nazionale è superfluo in Stati Uniti o India, ma può magari essere vitale perché vengano girati film in islandese, in maltese o in sloveno. È pure ovvio che il rubinetto va manovrato a seconda della temperatura dell’acqua in quel determinato istante: acqua fredda se si rischia l’ustione; acqua calda se il pericolo è invece di congelamento. Ma il semplice buon senso suggerisce che non sono l’acqua calda o fredda in sé il male, ma il loro eccesso. Che l’ideale per la salute è un giusto equilibrio, entro limiti di variazione legati al gusto personale che in realtà non sono poi troppo ampi. E che se per evitare una polmonite si insiste troppo sul rubinetto del caldo alla fine si è danneggiati comunque, per l’ustione (e viceversa…).
L’allarme sui fondi pensione non è oggi un dato argentino, ma mondiale. Negli Stati Uniti tra il giugno del 2007 e il giugno del 2008 il valore degli attivi detenuti dai fondi pensione privati e pubblici è calato del 10%. Gli asset “tossici” posseduti dai fondi pensione Usa, francesi, tedeschi, svedesi e danesi sono stati stimati dal Financial Times in 700 miliardi di dollari. I fondi britannici sono nei guai per colpa della bancarotta islandese. E dunque si capisce quando perfino McCain, che non è certo un pericoloso estremista anticapitalista, ha messo il salvataggio delle pensioni al centro del suo programma elettorale. Nello stesso Cile, per il cui modello di boom economico il sistema dei fondi pensione è stato uno storico fiore all’occhiello, c’è dibattito sulle riforme da fare, dopo che le locali Amministratrici di Fondi Pensione (Afp) hanno perso dal settembre 2007 ben 16.184 milioni di dollari: adesso restano con 92,329. Anche se gli stessi sindacati non chiedono l’abolizione del sistema, ma la semplice aggiunta alle Afp private esistenti di un’altra Afp statale, a cui possa affiliarsi chi non si fida.
Si sta gelando dunque, per tornare alla metafora. E bisogna aprire sicuramente il rubinetto dell’acqua calda. Ma che succede se si mette a girare la manopola un rivenditore di unguenti per bruciature, personalmente interessato a crearsi occasioni di business? Il problema dell’intervento statale, più che nell’intervento, è spesso nello Stato: che può essere interessato a gestire l’economia non per farla andare meglio, ma per propri interessi clientelari, o peggio. Le amministrazioni argentine dei coniugi Kirchner, si è già ricordato, sono stata protagoniste di un default da 29 miliardi di dollari ai danni dei piccoli risparmiatori che le hanno permesso di saldare anche il debito da 9,5 miliardi col Fondo Monetario Internazionale: “successo” che è stato strombazzato come una vittoria del Terzo Mondo, come se fosse “terzomondista” prendere soldi in prestito da un pensionato, non ridarglieli e usarli invece per saldare il debito con un grande banchiere! Ovviamente, però, in quel modo l’Argentina è restata praticamente senza credito. L’unico a comprargli bond in questi ultimi anni è stato Hugo Chávez: 7,6 dei 9,2 miliardi emessi a partire dal 2005, a un tasso che dall’8,5 era cresciuto a settembre fino al 14,8. Per recuperarlo Cristina Kirchner aveva dunque iniziato le trattative per saldare i 9,5 miliardi dovuto al Club di Parigi, ricomprando nel contempo Aerolínas Argentinas dagli spagnoli: mosse, l’una e l’altra, rese possibili grazie alle riserve del Banco Central, che grazie al boom di export della soia erano arrivate a 47 miliardi. Ma la crisi ha fatto saltare la trattativa, ed allo stesso tempo ha affondato i prezzi di soia e cereali. Senza contare che comunque lo sciopero degli agrari aveva costretto il governo a ritirare il progetto di “ritenute mobili” sul relativo export. La stessa crisi ha fatto dimezzare il prezzo del petrolio in tre mesi, e le quote attuali sono ben lontane dalla quota di 90 dollari al barile che Chávez riteneva indispensabili per portare avanti la propria politica a tutto campo. Dunque, anche su quel fronte la cuccagna è finita. Ma nel 2009 c’è una quantità di scadenze, che assieme alle altre necessità finanziarie del governo per il prossimo triennio sono state stimate in 28,4 miliardi di dollari.
Ebbene: a quanto ammonta esattamente il tesoro delle Afjp, le omologhe argentine delle Afp cilene? 30,6 miliardi. Cristina Fernández de Kirchner nel firmare il progetto ha manifestato la sua intenzione di “proteggere i lavoratori e i pensionati”: 9,5 milioni di lavoratori che si aggiungeranno ai 4,5 milioni già nel sistema pubblico. Perché in Argentina c’era già la possibilità di scelta che chiedono i sindacati cileni. Il governo ricorda che negli ultimi 12 mesi le Afjp hanno perso il 20%. Le amministratrici rispondono che comunque dal 1996 c’era stata una redditività media del 7%, al netto dell’inflazione, e malgrado il botto del 2001. Insomma: l’intervento sarebbe sospetto. La maggior parte dell’opposizione dice ora che bisognerà vedere se i fondi saranno effettivamente riservati solo ai pensionati, o se andranno in un calderone statale destinato a parare tutti i buchi. Elisa Carrió, la leader del partito di opposizione più rappresentato, e che può vagamente considerarsi una Italia dei Valori argentina, dice di avere però la netta impressione che “l’obiettivo principale del governo è fare cassa per le spese elettorali o il default”.
Intanto l’indice Merval della Borsa argentina è caduto del 10,99%, e i titoli bancari del 21%: il minimo in quattro anni. E la magistratura ha messo sotto inchiesta le Afjp per presunta frode all’amministrazione pubblica, un reato punito da 2 a 6 anni di prigione, vietando anche loro di operare sul mercato per i prossimi sette giorni. Nella partita ci stanno infatti anche i 3,5 miliardi di pesos che lo Stato avrebbe dovuto pagare nel 2009 alle Afjp in conto capitale e interessi dei buoni pubblici che le Amministratrici avevano nei loro portafogli, e che se passa il provvedimento non saranno più pagati. Il motivo per cui appena arrivata la notizia fin da lunedì le Afjp avevano iniziato a svenderli.