Cosa c’entra la globalizzazione con la destra e la sinistra?
09 Dicembre 2007
globalizzazione. Tesi: la globalizzazione ha prodotto il superamento
dell’antitesi destra-sinistra, imponendo un unico modello di azione politica.
Questo modello è determinato dall’apertura o dalla chiusura alla
globalizzazione. Tutto qua, questa la sostanza della politica. Il resto è
ideologia e non serve. La tesi di Blair non è affatto originale ed è sbagliata
come tutte le tesi unilaterali. Se è vero, come è vero, che la globalizzazione
ha scomposto e destrutturato gli spazi storici delle ideologie novecentesche e,
ad esempio, troviamo oggi un Sarkozy che dice cose più “di sinistra” di quelle
sostenute da Blair, che dovrebbe essere di sinistra, non è tuttavia altrettanto
vero che siamo nella notte in cui tutte le vacche sono nere.
La politica è anche cultura e visione della realtà, dunque
il medesimo fenomeno viene letto e concepito dalle forze di sinistra in maniera
diversa rispetto alla percezione dei soggetti politici appartenenti alla
destra. La decisione si fonda su una scelta che, a sua volta, presuppone un
criterio culturale, anche ideologico, dunque non può essere tutto ridotto al
monocausalismo dettato dalla globalizzazione. Così si rischia di fare della
globalizzazione una sorta di metafisica o addirittura teologia secolarizzata
della storia. E poi, come anche un filosofo acuto come Gauchet ha recentemente
osservato sul suo blog, all’interno del macrofenomeno “globalizzazione” occorre
storicizzare e periodizzare (http://gauchet.blogspot.com/). Esistono molte fasi
storiche della globalizzazione e se si fa semplicemente riferimento alla
mondializzazione che ha generato l’idea di un cosmopolitismo, basta andare alle
pagine gramsciane per ricavare più di uno spunto critico di riflessione. La
stessa percezione ideologica dello svuotamento completo dello stato-nazione,
nel quadro dei mutamenti sistemici causati dal movimento del mercato mondiale,
è in larga misura una forzatura, divenuta senso comune.
L’ideologia, quando si
coagula in senso comune, abbandona la scena storica e va ad occupare quella
teologica, seppur secolarizzata. Schmitt ebbe buon gioco nel definire le
categorie politiche categorie teologiche secolarizzate. La globalizzazione,
così concepita, è la cartina di tornasole di questa geniale intuizione. La
prova del nove. La tesi di Blair, dunque, è fragile e mostra tutti i suoi
limiti di fronte ai fenomeni reali della globalizzazione. Una tesi
iper-liberale che, di fatto, “spoliticizza” la politica, la rende funzionale ad
una catena di processi extra-politici ed extra-sociali. Così si legittima la
posizione di Fitoussi che, anche recentemente sulle colonne del Corriere della Sera (domenica 2 dicembre), ha definito una catena
di processi prodotti dalla globalizzazione, segnalando che occorre “districare
la retorica dalla realtà”. “La catena che ho in mente, osserva Fitoussi, è
questa: l’integrazione economica porta apertura. L’apertura provoca volatilità.
La volatilità alimenta l’insicurezza. L’insicurezza richiede tutela. Quindi, il
problema centrale della globalizzazione, oggi come allora, è quello di
soddisfare la domanda di tutela derivante dall’insicurezza economica, sociale
ed ambientale. In altre parole, abbiamo bisogno di nuove utopie che,
diversamente dall’ideologia e dalle religioni, devono essere sostenibili sulla
terra”. La conclusione di Fitoussi è altrettanto errata di quella di Blair,
perché l’utopia sposta il baricentro delle soluzioni che l’economista francese
auspica, lasciando completamente inevasa proprio quella domanda di tutela che
egli crede debba essere prioritariamente soddisfatta.
Blair e Fitoussi sono due
posizioni-specchio che risentono dell’effetto-specchio tipico dell’ideologia
divenuta senso comune. Il dato vero deve essere declinato diversamente: se
tutto soggiace o ai movimenti immanenti alla globalizzazione, come processo
autoreferenziale, o allo scatto in avanti dell’utopia, a cosa serve la
politica? La tesi teorico-politica di Gauchet, che rilegge la storia politica
della democrazia e ne rivela caratteristiche apiretiche, può aiutare a
comprendere le ragioni che inducono un realista conservatore come Fukuyama a
stabilire come prioritaria la “nation-building”, la costruzione di istituzioni
capaci di produrre le mediazioni tra i popoli e i meccanismi dei mercati. Qui
si inserisce poi la polemica intellettuale, che ha visto in campo oltre a
Tremonti, Pelanda e Luttwak, dunque non gente di sinistra, sul turbocapitalismo
produttore di nuove povertà e destrutturazioni sistemiche.
Anche il globalismo
autoreferenziale è un’ideologia. Un senso comune diffuso tra chi non vuol fare
la fatica di leggere in controluce i complessi processi del XXI° secolo,
inclusi gli antagonismi sociali tutt’altro che reazionari e diversamente
collocati rispetto alla tradizione leninista. Poteri costituenti che si aprono
alla rete sia su internet che nella società. Poteri costituenti che si
alimentano delle contraddizioni sistemiche derivanti dalla globalizzazione.
Eppure, non semplicemente chiusi di fronte ad essa, ma alternativi rispetto al
meccanismo dominante capitalistico. Non è la mia posizione, ma è certamente una
posizione che non può essere inserita nel gruppo di chi si chiude alla
globalizzazione. Piuttosto, siffatta tendenza riecheggia la domanda che veniva
posta, negli anni Ottanta del secolo scorso, ai socialisti craxiani: quale
socialismo? Ecco, gli antagonisti oggi si domandano e domandano ai loro
interlocutori: quale globalizzazione?
Dico questo perché mi pare che, ad una crescente quota di
senso comune, corrisponda una quota altrettanto cospicua di banalizzazione
della globalizzazione e dei fenomeni sociali, ideologici e politici. Con un
corollario che ritengo pericoloso: la sostituzione della politica con la
governance come categoria trasponibile dal settore aziendale a quello sociale e
politico. Inutile, a questo punto, fare convegni sulla fine della politica. Non
si dibatte più su un “cane morto”.