Cosa nasconde la polemica sul biofuel
08 Maggio 2008
La Commissione Europea sta trattando
intensamente la questione della “food crisis”, in particolare in riferimento
all’altra tematica – questa a livello prettamente comunitario – dei
biocarburanti.
Le posizioni ufficiali si evolvono rapidamente, ammettendo dopo
pochi giorni quanto solo una settimana prima negato con convinzione: è il caso
dell’affermazione di una certa responsabilità del piano per l’utilizzo del
biofuel nel contesto della crisi globale del prezzo del cibo.
Uno dei protagonisti del dibattito è il commissario europeo
per il commercio, Peter Mandelson, che da posizione di strenuo difensore del
libero mercato ha concesso che “certe politiche” relative ai biocombustibili
possano contribuire alla crescita del prezzo del cibo, e addirittura accrescere
l’effetto serra.
Il motivo per cui si era deciso circa un anno fa di
sviluppare queste fonti energetiche alternative (del 10% entro il 2020) era,
ovviamente oltre a quello geopolitico di una maggiore indipendenza dal petrolio
(sia in chiave politica che economica, basti pensare al mostruoso innalzamento
del prezzo al barile e alle sue ripercussioni sull’economia americana), una
maggiore attenzione all’ambiente. “Energia” più pulita, insomma, contro il
processo di “global warming” che è un’altra delle emergenze attualmente più
sentite dalla comunità internazionale: da Kyoto ’97 in vista di Copenaghen ’09,
contro il cosiddetto “greenhouse effect”.
In un secondo momento però, la tragedia umanitaria globale
che si sta sviluppando in tutto il mondo ha portato a fortissime critiche sulla
produzione di biofuel, che sarebbe un ulteriore elemento di peggioramento per
la povertà nei paesi già più poveri: per ragioni di convenienza “commerciale”,
infatti, molti produttori di sostanze alimentari dal Terzo Mondo avrebbero più
entrate a produrre biofuel che cibo. Con l’ovvia conseguenza di avere meno cibo
a disposizione sul mercato.
Mr Mandelson ha comunque escluso che tali implicazioni dei
biocarburanti possano essere attribuite alle politiche comunitarie, che nei giorni scorsi qualcuno voleva rimettere in discussione: anzi sono effetti
collaterali esclusivi delle politiche statunitensi nel settore. Sul The
Guardian del 29 aprile ha infatti scritto: “Possiamo già osservare che la
produzione su vasta scala di biocarburante, specialmente negli Stati Uniti, può
essere uno dei fattori che hanno innalzato il prezzo del cibo, in quanto
sottrae risorse alla produzione di cibo. L’interesse a coltivare mais per
produrre etanolo, visti i sussidi pubblici, negli Stati Uniti riduce la
produzione della materia prima anche a livello di mercato globale, aumentando i
costi di quest’importante alimento”.
Altre fonti hanno completato il quadro di
critica a Washington, sottolineando come nessuno abbia mai preteso che l’incremento
di produzione di prodotti agricoli per produzione di etanolo in America non
abbia avuto un contraccolpo sul mercato agricolo mondiale. Nonostante questo si
precisa come “non sia nostro compito dire agli USA quali strategie e politiche
intraprendere”.
Di contro, a parte questa frecciatina ai cugini d’oltre
Oceano, la produzione europea di biocarburante avrebbe secondo il commissario
solo “un effetto minimo” sui prezzi mondiali.
A livello globale, il problema che si pone è quello che le
ONG del settore ambientalista denunciano: “Ci sono sufficienti calorie di
granoturco nella tanica di carburante di un SUV da alimentare una persona per
un anno”. Ovvero la necessità di “social criteria”, per lo meno
nell’incentivare questa nuova forma energetica: tuttavia prendere in
considerazione una qualsiasi questione sociale nel fissare i criteri di
importazione dei biofuels avrebbe delle conseguenze molto più ampie sul mercato
europeo, come sempre Mr. Mandelson avverte. Come imporre un’obbligazione
sull’esportazione di un produttore di canna da zucchero, in base alla finalità
alimentare o energetica che abbia?
Un altro funzionario della commissione per il commercio ha
dichiarato che le questioni prettamente “sociali” o “umanitarie” non possono
essere incluse nella normativa, sia perché la WTO non le considera, sia perché
portandole alle estreme conseguenze logiche in questo caso prevederebbero
criteri di “compatibilità sociale” non solo per quanto riguarda i
biocarburanti, ma per tutte le importazioni. Qualcosa di molto pericoloso ed in
contrasto col concetto di libero mercato alla base del mondo occidentale.
Una strada invece percorribile è quella di applicare
principi sociali attraverso un altro strumento, cioè la pressione ai partner
commerciali affinché sottoscrivano e rispettino gli standard delle Nazioni
Unite definiti dall’International Labour Organisation.
Tuttavia si resta al livello di mosse “suggerite” e non di decisioni prese: la
speranza è che la ricerca richiesta dal presidente della Commissione, Jose Manuel
Barroso, porti a qualche consapevolezza in più e che tutto il trambusto sulla
moratoria internazionale all’Onu sul tema non si risolva nella solita occasione
da strumentalizzare per difendere i propri interessi.