Cos’era Bretton Woods e perché ne serve un’altra

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Cos’era Bretton Woods e perché ne serve un’altra

21 Ottobre 2008

Era stato Tremonti uno dei primi a lanciare l’idea di una “nuova Bretton Woods”, per risolvere il problema del tremendo dumping sociale che è anche all’origine del boom dell’export cinese: anche se non si tratta evidentemente solo di questo. Ma in seguito è stata proprio la Cina a far sapere di essere interessata a un aggiustamento del genere, per evitare i rischi di deprezzamento del miliardo e 600 milioni di dollari di riserve accumulati in questi anni di crescita economica e di deficit dell’import Usa. Adesso, nell’atmosfera di “nuovo 1929”, la richiesta di una nuova Bretton Woods sembra essere diventata generale. Ma cos’era esattamente Bretton Woods?

All’alba di tutte le cose, era il bimetallismo: monete di metalli diversi, scambiabili tra di loro in base a un valore teoricamente legato a quello del metallo. Ma il valore nominale era inciso, mentre quello effettivo dipendeva dalla continua fluttuazione dei prezzi. Dunque divergevano, e la moneta col “piede monetario” migliore veniva tesaurizzata, sparendo dalla circolazione. “La moneta cattiva scaccia quella buona”, aveva spiegato nel 1551 Sir Thomas Gresham, finanziere al servizio della regina Elisabetta I.

In teoria saremmo ritornati a un momento del genere, se si pensa che il metallo impiegato per coniare la moneta da un cent di dollaro statunitense vale in realtà 2 cents. A fare incetta di soldini, fonderli e rivenderne la materia grezza, si otterrebbe un guadagno del 100%! Ma più nessuno ragiona ormai in questi termini: per colpa o per merito, dipende dai punti di vista, della carta moneta. Anche se in effetti l’auge dei cosiddetti “assegnati” durante la Rivoluzione Francese non fu che una forma estrema di Legge di Gresham, con la “moneta cattiva” fatta addirittura di carta. Nel frattempo in Inghilterra l’eccesso di oro di fine del ‘600 aveva portato alla scomparsa dell’argento: un monometallismo di fatto, infine sanzionato per legge nel 1844.

Altra tappa nel 1871: Guerra Franco-Prussiana, sconfitta di Sedan, Trattato di Francoforte, e Francia che deve pagare un’indennità di 5 miliardi di franchi in argento, che lo svalutano in maniera irrecuperabile. La Germania dunque adotta sua volta il Gold Standard all’inglese, presto imitata da tutto il mondo: l’Italia dal 1879. Ogni banconota è convertibile in una qualità fissa di oro, collegata al rapporto tra quantità di moneta in circolazione e quantità di oro posseduta da ciascun Paese. Sospesa la convertibilità con la Grande Guerra, passata l’emergenza bellica in molti provano a tornare al passato, ma la gente non accetta più le necessarie cure deflazioniste, nel 1931 perfino la sterlina ci rinuncia, e l’unica valuta convertibile in oro resta il dollaro.

Con il che, però, nel clima di entusiasmo per lo sbarco in Normandia il 22 luglio del 1944, i 44 Paesi della coalizione Alleata decidono a Bretton Woods, New Hampshire, un regime di cambi fissi rispetto al dollaro, a sua volta convertibile in oro al rapporto di 35 dollari all’oncia. Ricordate, lettori più anziani, quegli anni ’60 in cui il rapporto della nostra moneta era infatti quello di 622 lire per ogni dollaro? Questo cambio poteva essere variato dalle autorità monetarie di ogni Paese, ma solo fino al 10 per cento in più o in meno. Oltre quel livello ci voleva l’autorizzazione del Fondo Monetario Internazionale, custode del sistema.

Ma con il deficit causato dal Vietnam Richard Nixon nell’agosto del 1971 stabilì l’inconvertibilità del dollaro: cioè, non era più possibile portare dollari alla Federal Reserve per chiederne la conversione in oro. Nel 1976 in Giamaica i Paesi dell’Fmi si accordarono poi per abolire anche l’ormai inutile prezzo ufficiale dell’oro. Da allora è iniziata l’era dei cambi fluttuanti, che però aveva sempre nel dollaro, valuta più pregiata, il punto di riferimento: uno zenit ormai saltato, con questi chiari di luna di dollari asfittici e euro imperiale. L’Iran di Ahmadinejad e il Venezuela di Chávez premono infatti da tempo sull’Opec per sostituire l’euro al dollaro nella valutazione del greggio, con evidente sottinteso anti-Usa. Mentre Pechino pur di non dover rivalutare lo yuan ai danni del proprio export, come le chiedevano da tempo Usa e Europa, ha fatto intravedere lo scenario di un cambio fisso: presumibilmente ancorato a un paniere di euro, dollari e altre valute forti.

Le decisioni del ’76 avevano segnato anche lo svuotamento della funzione originaria dell’Fmi, che da allora si è trasformato soprattutto in un dispensatore di ricette economiche imposte a colpi di prestiti: non accetti i “consigli”? Allora, niente soldi… Spesso queste formule sono state date in modo stereotipato, senza tener conto delle diversità tra le varie situazioni. Quasi sempre si sono attenute a quel tipo di logica formale che fa magari stare bene l’economia nel suo complesso ma male i cittadini, secondo lo stesso meccanismo oggi rimproverato agli accordi di Maastricht. Ed è pure divenuto comodo per i governi in crisi che hanno trovato comodo scaricare sui “cattivoni” dell’Fmi la responsabilità di politiche di austerity che avrebbero dovuto essere fatte comunque.

Come che sia, per colpe in parte sue e in parte no, il Fondo Monetario Internazionale ha comunque perso prestigio e legittimità: come d’altronde quella Banca Mondiale creata invece per aiutare lo sviluppo, e che non sempre è stata invece coperta e allineata con l’Fmi. Ma col loro carisma è venuta meno avuto l’ultima assise di governo planetario che, per quanto tecnocratica, era in grado di dare un minimo di regole alla globalizzazione. Che, in estrema sintesi, può essere descritta in questo modo: quella situazione per la quale in seguito allo sviluppo tecnologico è nata un’economia mondiale; ma in un contesto dove la politica è ancora decisa a livello nazionale. Comprensibile il disagio delle ideologie, sia di sinistre che di destra, che hanno nella forza dello Stato un punto di riferimento irrinunciabile.

Stiamo attenti però a distinguere il liberalismo classico sia da quella sua evoluzione statalista che in inglese è definita liberal; sia dall’opposta deriva antistatale in inglese nota invece come libertarian. Ci accorgeremo che anche il liberalismo classico si basa sull’ideale di Stato minimo, non di Stato assente. Anzi, l’idea è che lo Stato deve fare il minimo possibile, proprio perché quel compito di regolazione che è la sua essenza è troppo importante, per non dedicarvi tutte le attenzioni e le risorse. Era Luigi Einaudi che vedeva nell’unità europea la conseguenza inevitabile dell’unificazione economica a livello continentale, a avvertiva: o l’Europa si faceva nella democrazia o nella libertà; o l’avrebbe fatta Hitler o un suo epigono, “con i metodi di Attila”.

Bretton Woods, dunque, in questo momento non significa più solo accordo sulle valute. L’idea più generale è quella di creare un governo mondiale delle regole in modo di dare questa certezza del Diritto che a livello mondiale manca: anche perché, appunto, l’Onu è pletorica, paralizzata dai diritti di veto e screditata dal peso che vi hanno i Paesi non democratici; il G7 o G8 è espressione delle sole Grandi Potenze del Nord; Fmi e Banca Mondiale sono entità tecnocratiche; eccetera. Certo: il problema è tutto quello di inventare un nuovo meccanismo che eviti tutti questi difetti e riesca nel contempo a essere efficace. Una parola!