Così l’uomo per controllare il destino ha sacrificato la propria libertà

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Così l’uomo per controllare il destino ha sacrificato la propria libertà

29 Dicembre 2020

Consiglio a tutti la lettura di “Heidegger e il nuovo inizio”, splendido saggio di Umberto Galimberti, edito da Feltrinelli nell’Ottobre di quest’anno. In questi momenti difficili, fermarsi a riflettere sui decadimenti culturali della nostra società rileggendo un grande filosofo del ‘900, è cosa quanto mai opportuna se non necessaria. L’evoluzione del pensiero occidentale, riletta alla luce del pensiero di Heidegger è un lungo “tunnel antropocentrico” nel quale l’uomo, nel tentativo di controllare il proprio destino, ha prodotto la più grande minaccia alla propria libertà.

Il concetto di “destino” nella filosofia heiddegeriana è strettamente legato al concetto di essere, inteso come libera manifestazione di un accadimento. Ma che cos’è l’essere per Heiddeger? Il filosofo tedesco, ci spiega Galimberti, ritrova il vero significato dell’essere nel pensiero aurorale per il quale non vi era distinzione tra il termine “essere” e il termine “natura”. L’essere, in greco Physis, poi tradotto “Natura” in latino, era lo sfondo immutabile del creato all’interno del quale l’uomo viveva. Questo sfondo era il luogo della possibilità, dove le cose “sbocciano da sé stesse”: un carattere, quello della spontaneità, che dimostra che l’essere è libero, indipendente dall’intervento della soggettività umana. Non era l’oggetto in sé ad essere, era l’essere che si manifestava nell’oggetto, nell’ente. Pertanto, la verità delle cose si poteva intendere solo vivendo in armonia con il creato, lasciando che l’essere si manifestasse come verità negli enti. L’uomo antico viveva in questo “sfondo immutabile” contemplando la verità e in questo “pensiero meditante” l’uomo trovava, la sua etica, in un certo senso, il suo destino.

Ma ad un certo punto all’uomo questo non bastò più e fu Platone, con la sua metafisica, a ribaltare questa concezione del mondo. La sua metafisica fu il primo tentativo di dominio dell’uomo sull’Essere: congelò l’essere nelle idee come forme immutabili del pensiero umano e le rinchiuse in un mondo alterno, che chiamò iperuranio, come se fosse uno scaffale degli attrezzi da cui l’uomo poteva liberamente attingere. Così facendo gli enti non erano più in funzione dell’essere, ma erano autonomi. Ma, separati dall’essere, come facevano questi enti ad esistere? Doveva esserci un ente primo, di livello superiore, che giustificava l’esistenza degli altri enti. Ed ecco l’idea di Bene, causa prima, ragion d’essere di tutti gli enti, che non è semplicemente, ma serve a qualcosa. In Platone l’essere in sé non vale più nulla, è qualcosa solo nell’ente, che invece è misurabile e causa di altri enti, in un’infinita catena di utilità. Ed è così che viene creato quel primo nesso tra verità ed utilità che annichilisce l’etica e rende il destino materia da calcolare.

Il Bene Platonico come fondamento dell’etica venne poi modificato dal pensiero medioevale a cui toccò dare un fondamento spirituale al Bene chiamandolo Dio e facendo a Dio, disse Heidegger, “il più grosso sgarbo possibile” che risiede, non tanto “nel ritenerlo inconoscibile, nel provare l’indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supremo valore”. Così il destino dell’uomo si identifica con Dio, da esso veniva e ad esso tornava.

Tuttavia, una verità trascendente, un Dio inconoscibile, mal si adattava all’uomo moderno, razionale, sempre più padrone del mondo. No, l’uomo voleva di più: cogito ergo sum. Penso e quindi sono. Sono io che penso, quindi sono io l’essere, e l’ente è solo in relazione a me. L’uomo non si accontenta più di contemplare e comprendere, non trova più riparo in una verità fuori dal mondo, ma grazie alla tecnica, manipola l’ente e crea la sua verità, forgia il suo destino. In questo modo, si compie la completa soggettivizzazione del mondo: l’ente diviene qualcosa solo in relazione al pensiero umano. Nulla è se non è pensabile. E la tecnica qui gioca un ruolo determinante, perché è lo strumento con cui l’uomo si sostituisce all’essere disponendo degli enti a suo piacimento. Perfino Nietzsche, che con la sua volontà di potenza sembrava voler far piazza pulita della metafisica, finisce con il “consacrare definitivamente l’antropocentrismo occidentale” arrivando a sostituire l’uomo a Dio. Non c’è più nulla che separa l’uomo dalla verità, egli è padrone del proprio destino.

Così l’uomo ha vinto tutte le sue battaglie: ha sconfitto l’essere imprigionandolo nelle sue categorie razionali, ha sconfitto Dio sostituendolo con la tecnica, ma si ritrova abitante di una terra che “non è più concepita come (…) sua dimora, ma come materia prima per la sua produzione e per il suo consumo”; e dove “la tecnica non è più uno strumento nelle sue mani, ma è il suo ambiente”. Nel mondo della tecnica succede un capovolgimento: “non è più l’etica a scegliere i fini e a incaricare la tecnica di reperire i mezzi, ma è la tecnica che condiziona l’etica schiavizzandola nel ruolo di validatrice dei suoi risultati”.

La tecnica riconosce soltanto i valori di efficienza e produttività: quella è la sua etica. In questo mondo, non c’è spazio per la libertà umana perché l’identità dell’uomo è data solo “dal ruolo che egli occupa nell’apparato tecnico di appartenenza”. L’uomo non è più valorizzato per le sue qualità e per i suoi valori, ma per la rispondenza ai criteri stabiliti dall’apparato tecnico. L’uomo non è più padrone del proprio destino, non sarà più libero.
Heidegger poteva solo immaginare quanto coercitiva e onniscente sarebbe diventata la tecnica nei nostri giorni, ma di sicuro non avrebbe cambiato il suo consiglio: “…e’ giunto il tempo di pensare, che è un tempo diverso rispetto a quello del calcolare”.