Così sono cambiate le regole per andare in pensione in 15 anni
26 Febbraio 2010
Avuto riguardo alla disciplina previdenziale, vuoi di base vuoi complementare, il bilancio del primo decennio del nostro secolo, salvo auspicabili colpi di coda in corso d’anno, appare di gran lunga meno dirompente di quello dei due lustri che lo hanno preceduto. Il fatto è che gli anni ’90 del secolo passato sono stati anni straordinari per gli interventi di riforma attuati in campo pensionistico e, forse, per molti aspetti irripetibili.
La Riforma Amato prima (1992) e, soprattutto, la Riforma Dini-Treu, poi (1995), tuttora solido asse portante dell’ordinamento pensionistico di base italiano, nonché la prima normativa organica in materia di previdenza complementare (1993) sono provvedimenti che hanno segnato la storia previdenziale del nostro Paese, ponendoci per molti aspetti anche in posizione di avanguardia nell’ambito dell’Unione.
Con riferimento alla previdenza di primo pilastro, è utile ricordare brevemente i contenuti della Riforma Dini-Treu. Essa è innanzitutto connotata dall’introduzione del sistema contributivo per il calcolo degli assegni pensionistici avuto riguardo ai nuovi ingressi in assicurazione dal 1° gennaio 1996 e per coloro che a tale data non avessero maturato almeno 5 anni di contribuzione.
Sono caratteristiche del sistema:
– età pensionabile variabile da 57 a 65 anni MF con 5 anni di contribuzione;
– abolizione della pensione di anzianità;
– abolizione del trattamento minimo;
– calcolo della pensione in ragione del montante virtuale dei contributi versati durante l’intera vita lavorativa (33% per i lavoratori dipendenti, 20% per i lavoratori autonomi), rivalutati nel tempo in ragione alla media della variazione del PIL nel quinquennio precedente;
– trasformazione del montante contributivo virtuale in rendita tramite l’uso di coefficienti che riflettono la speranza di vita dell’iscritto al momento del pensionamento. Il calcolo dei coefficienti si basa sulla mortalità rilevata dall’ISTAT al 1990, tiene conto della probabilità di lasciare superstiti e di un incremento reale del PIL dell’1,5%;
– previsione della revisione dei coefficienti con cadenza decennale.
La riforma contempla una lunga fase di transizione fra il vecchio e il nuovo sistema:
– periodo di contribuzione al 31.12.1995 > 18: la pensione è calcolata integralmente in base al sistema retributivo;
– periodo di contribuzione al 31.12.1995: > 5 e < 18: l’assegno pensionistico viene determinato in base al sistema retributivo con riferimento agli anni sino al 31.12.1995 e secondo il metodo contributivo per gli anni successivi a tale data;
– restrizione dei requisiti per il pensionamento di anzianità: introduzione del requisito di età minima (57 anni), con 35 anni di contribuzione. Nessun requisito di età in presenza di 40 anni di contribuzione.
In questo contesto ordinamentale, la Riforma Maroni (L. n. 243/2003), nonostante le fortissime e, diciamo la vertà, alquanto pretestuose polemiche politiche e sindacali che ne accompagnarono il lungo e sofferto iter parlamentare, ha rappresentato un mero momento manutentivo del sistema, disponendo:
– per il sistema contributivo: l’aumento dell’età pensionabile da 57 a 65 anni M e 60 F e l’introduzione della pensione di anzianità;
– avuto riguardo alle pensioni di anzianità (sistema retributivo e contributivo): l’introduzione dei requisiti cumulati età più anzianità (cd “scalone”) secondo l’articolazione seguente:
– 2008-09 : 60 anni+35 o 40 (autonomi 61)
– 2010 -13: 61 anni+35 o 40 (autonomi 62)
– dal 2014 : 62 anni+35 o 40 (autonomi 63)
L’ultimo Governo Prodi intervenne a sua volta in chiave manutentiva della riforma Dini-Treu e correttiva della Riforma Maroni con la L. n. 247/2007 (di attuazione del “Protocollo sul Welfare” del luglio 2007), disponendo:
– per la pensione di anzianità: l’abolizione dello “scalone”, con mantenimento del requisito cumulato età più anzianità, ma con un’applicazione più graduale:
– 1/1/2008-30.6.2009: età 58 (autonomi 59);
– 1/7/2009-31-12-2010: età+anzianità = quota 95, età min. 59 (autonomi 96 e 60);
– 1/1/2011-31-12-2012: età+anzianità = quota 96, età min. 60 (autonomi 97 e 60);
– dall’1/1/2013: età+anzianità = quota 97, età min. 61 (autonomi 98 e 62);
– conferma della possibilità di pensionamento con 40 anni di anzianità contributiva indipendentemente dall’età.
– efficacia dell’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione dal 1° gennaio 2010 e introduzione della previsione della cadenza triennale per le revisioni successive.
Entrato, alfine, in carica l’attuale Governo Berlusconi, il Ministro Sacconi, con norma dell’estate scorsa (art.22- ter, comma 2, del D.L. n.78/2009, convertito in L. n. 102/2009) ha introdotto un’importante misura consistente nell’adeguamento automatico del requisito dell’età, a far tempo dall’anno 2015. Questa disposizione, costringendo i singoli a procrastinare nel tempo il pensionamento, di fatto attenuerà l’effetto della contrazione dell’ammontare dei trattamenti dovuta alla variazione periodica dei coefficienti di conversione. Ciò, tra l’altro, darà stabilità al tasso di sostituzione dei trattamenti di base, sostanzialmente fissando altresì il ruolo economico che è chiamata ad assolvere la previdenza complementare, allorquando il sistema applicherà in via generalizzata ed esclusiva il metodo di calcolo contributivo (intorno al 2040).
Sempre avuto riguardo alla previdenza di base, sembra importante, da ultimo, segnalare come vada ascritto alle prime scelte compiute dal Governo in carica il merito di avere positivamente concluso un cammino da tempo intrapreso dall’ordinamento pensionistico in tema di cumulabilità tra pensione e reddito lavorativo. Ai sensi dell’art. 19 del D.L. n.112/2008, convertito, con modificazioni, nella L. n.13372008, a far tempo dal 1° gennaio 2009 è, infatti, consentita la totale cumulabilità delle pensioni dirette di anzianità a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria e delle forme sostitutive ed esclusive di quest’ultima con i redditi da lavoro autonomo e dipendente.