Cossiga è stato un Presidente contro tutte le ipocrisie della sinistra

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Cossiga è stato un Presidente contro tutte le ipocrisie della sinistra

17 Agosto 2010

Incontrai Cossiga per la prima volta l’8 febbraio del 1992, in una serata gelida, a Udine, nel mio primo servizio politico per la televisione. Nella prefettura della città, il Presidente incontrò, formalmente, ufficialmente, tutti gli uomini di Gladio, di Stay Behind ancora in vita. Gesto provocatorio, schiaffo in faccia al Pds di Occhetto che, assieme a tutta la sinistra lo aveva formalmente messo in stato d’accusa aprendo la procedura di Impeachement il 6 dicembre del 1991. Un’azione clamorosa, basata su molte accuse fasulle, tra cui spiccava quella di avere sostenuto la piena legittimità della Organizzazione Gladio, la struttura Nato, assolutamente legittima, che aveva il compito di organizzare una resistenza democratica in caso di tentativo di sovversione da parte del Pci – largamente etero diretto e finanziato dall’Urss – ritenuta invece associazione sovversiva e illegale dalla sinistra (e dalla magistratura, in primis dal Pm Felice Casson, oggi non casualmente senatore del Pd).

Uno ad uno, vidi uscire quegli anziani signori, tutti sorridenti e felici dell’onore che Cossiga aveva reso loro e parlando con loro, scoprii quel che tanti sapevano, ma che i media di sinistra e il Pds sprezzantemente ignorava. Quasi tutti loro erano stati partigiani “bianchi” della Divisione Osoppo (composta da militanti della Dc, del Partito d’Azione e del Psi) che durante la guerra e avevano combattuto sia i nazifascisti, che i “partigiani” di Tito del IX Corpus che intendevano annettere Trieste, Gorizia e Udine alla Yugoslavia, strappandole all’Italia dopo averle occupate manu militari.

Il giorno dopo era prevista una visita  alle malghe di Porzùs, dove Cossiga voleva rendere omaggio ai  20 partigiani della Osoppo che erano stati trucidati barbaramente dai partigiani titini, al comando del comunista italiano Mario Toffanin. Un eccidio spregevole, perché i titini si erano presentati alle malghe come amici, ma poi avevano ucciso a freddo, a tradimento, il comandante della Osoppo Francesco De Gregori, il Commissario Politico (del Partito d’Azione) Gastone Valente, Giovanni Comin e  Elda Turchetti. Poi, avevano imprigionato gli altri 18 partigiani e per due giorni, li avevano maltrattati e posti di fronte all’aut aut: o passavano col IX° Corpus yugoslavo e combattevano per occupare e annettere le provincie giuliane e Trieste alla Yugoslavia, o li avrebbero fucilati. In 16 rifiutarono di tradire l’Italia e furono trucidati, tra loro Guido Pasolini, il fratello amatissimo di Pierpaolo, solo due accettarono di tradire e passarono con i titini, assassini dei loro compagni.

In quella tragedia era nascosta nel modo più oscuro, violento, ma completo, inquietante la verità, il senso dello scontro politico che si sarebbe combattuto in Italia – per fortuna solo sul piano politico – tra le forze democratiche e un Pci legato a Mosca e alle sue mire, nonostante le mediazioni di Palmiro Togliatti. La tragedia dell’eccidio di partigiani democratici per mano di partigiani comunisti metteva in crisi la teoria di un Pci che si voleva egemone nella lotta di Liberazione in piena funzione nazionale, mostrava di quali veleni, di quali terribili militanti come Toffanin, era composta, anche, la storia dei comunisti italiani. Infatti di Porzùs, fino a quel 9 di febbraio del 1992 non si era mai più potuto parlare in Italia (tranne che nel processo, che si tenne nel 1952), era proibito, il Pci e la sua presa sui media erano riusciti non solo a occultarlo.

Ma ora, i discendenti di quei comunisti (che continuavano a percepire i loro stipendi grazie all’”Oro di Mosca) arrivavano alla sfrontatezza di accusare Cossiga e il militanti della Gladio, cioè i partigiani della Osoppo, di avere tramato contro la Repubblica, col solido supporto dei magistrati alla Casson. Ma Cossiga non riuscì ad andare alle malghe di Porzùs, lo scandalo di quella “visita di Stato”, di quell’omaggio a quelle vittime del comunismo,  era tanto grande che la ebbero vinta i suoi consiglieri che quasi gli imposero di rinunciare a quel gesto di verità.

Capii, in quelle ore, quel che già avevo intuito subito dopo il rapimento Moro: Francesco Cossiga aveva la statura, la forza, la vivacità, ma anche le contraddizioni, le angosce dei grandi personaggi di Shakespeare. Ora era Banco, la vittima di Machbeth, ora re Lear, ora, di uno dei tanti re messi in scena a Stratford on Avon che incarnano il dramma del potere esercitato, della sofferenza nel condurre le trame cui l’esercizio del comando obbliga, follia inclusa.

Francesco Cossiga era uscito distrutto, umanamente, dall’esperienza del rapimento Moro, perché aveva creduto di dover sacrificare la vita dell’amico, al superiore interesse dello Stato, aveva ceduto al diktat del Pci, che negava la trattativa. Poi, subito dopo, aveva scoperto che era stato solo un gioco sporco, che c’era qualcosa di profondamente oscuro nel sacrificare la vita di un uomo – e che uomo era Aldo Moro! – all’interesse dello Stato e il senso di quella tragedia lo ha perseguitato per tutta la vita, non ultima componente di quella atroce depressione di cui ha da allora sofferto e che ora l’ha portato alla morte. Disse, anni dopo: “Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro”.

Ma Francesco Cossiga era un uomo retto e forte e, riprese le forze, si ributtò subito nell’agone politico: presidente del Consiglio nel 1979, poi presidente del Senato nel 1983, infine, nel 1985 Presidente della Repubblica (con voto unanime del Parlamento, il primo). E’ fondamentale oggi ricordare le accuse che il Pci e la sinistra gli lanciarono nel 1991 per chiederne l’Impeachement. E’ fondamentale proprio oggi, quando tanta parte dei media politically correct e del Pd menano tanto ipocrita scandalo per le polemiche contro il presidente Giorgio Napolitano che provengono dal Pdl.

I firmatari delle mozioni di accusa (ovviamente cassata dal Parlamento nel 1993) –è bene ricordarlo, perché fu un episodio indegno- erano Ugo Pecchioli e Luciano Violante, i massimi responsabili del Pci per i “Problemi dello Stato” e la “Giustizia”, poi Marco Pannella (sì, proprio lui), Nando Dalla Chiesa, Giovanni Russo Spena, Sergio Garavini, Lucio Libertini, Lucio Magri, Leoluca Orlando, Diego Novelli.

Queste le accuse:
a) l’espressione di pesanti giudizi sull’operato della commissione di inchiesta sul terrorismo e le stragi;
b) la lettera del 7 novembre 1990 con la minaccia di «sospendersi» e di sospendere il governo onde bloccare la decisione governativa riguardante il comitato sulla Organizzazione Gladio;
c) le continue dichiarazioni circa la legittimità della struttura denominata Organizzazione Gladio benché fossero in corso indagini giudiziarie e parlamentari;
d) la minaccia del ricorso alle forze dell’ordine per far cessare un’eventuale riunione del consiglio superiore della magistratura, nonché del suo scioglimento in caso di inosservanza del divieto di discutere di certi argomenti;
e) i giudizi sulla Loggia massonica P2, nonostante la legge di scioglimento del 1982 e le conclusioni della commissione parlamentare d’inchiesta;
f) la pressione sul governo affinché non rispondesse alle interpellanze, presentate alla Camera nel maggio 1991 da esponenti del PDS;
g) l’invito ad allontanare il ministro Rino Formica dopo le sue dichiarazioni sulla Organizzazione Gladio;
h) la rivendicazione di un potere esclusivo di scioglimento delle Camere e la sua continua minaccia;
i) la minaccia di far uso dei dossier e la convocazione al Quirinale dei vertici dei servizi segreti;
l) il ricorso continuo alla denigrazione, onde condizionare il comportamento delle persone offese e prevenire possibili critiche politiche.

E’ questa una eccellente sintesi, non delle malefatte, ma, al contrario, dei grandi meriti della presidenza Cossiga, non solo nella difesa intransigente della appartenenza atlantica dell’Italia (che il Pci ha sempre contestato, nonostante le ambiguità di Berlinguer, anche perché finanziato dal Pcus sino alla caduta dell’Urss nel 1989), perché dimostrano che Cossiga aveva perfettamente colto il nodo della anomalia italiana che già si era raggrumato attorno allo strapotere politico di tanta parte della magistratura.

La sua minaccia di inviare i Carabinieri per impedire al Csm di discutere un ordine del giorno che lui, che era presidente del Csm, aveva rifiutato (come era nei suoi poteri) e di procedere al suo scioglimento, dimostra che aveva compreso per primo che c’era un varco nel nostro assetto costituzionale che aveva permesso alla magistratura l’assunzione di poteri impropri, tanto dall’essere riuscita trasformare il Csm in una vera e propria “terza Camera”, che si arrogava e si arroga il diritto di fatto eversivo, di impedire alle altre due Camere di legiferare. Il tutto, nella chiara, esplicita, convinzione, che l’intero assetto politico, così come quello costituzionale, del paese fosse ormai inadeguato, che non rispondesse più alle esigenze dell’Italia, che andasse riformato, magari a colpi di piccone (a Cossiga piacque sempre la definizione di Picconatore che gli era stata affibbiata negli ultimi due anni della sua presidenza)

Un solo errore –a nostro parere – commise in quegli anni: la sottovalutazione del ruolo eversivo di Mani Pulite. Quelle sue dimissioni anticipate non furono un gesto di correttezza istituzionale (erano motivate dal fatto che avrebbe dovuto formare un governo, subito dopo le imminenti elezioni politiche, in scadenza di mandato, condizionando così il suo successore), ma un gesto politico contro l’accordo che Bettino Craxi e Arnaldo Forlani avevano siglato, che lui non condivideva, e che avrebbe portato il primo alla presidenza del Consiglio e il secondo alla presidenza della Repubblica.

Cossiga non comprese, in quel frangente, che quell’assetto di potere incardinato sui due forti leader del Psi e della Dc, sarebbe stato l’unico in grado di impedire alla Procura di Milano non già le indagini contro i corrotti della Prima Repubblica, bensì di ergersi a dominus del quadro politico, eliminando per via giudiziaria la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi e il Pli, risparmiando però solo il Pci-Pds, che pure di quella corruzione era pienamente parte, come risultò plasticamente nel formidabile discorso che tenne Bettino Craxi alla Camera il 29 aprile del 1993: “I Partiti specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo (ndr. nessuno si alzò): presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro”.

Abbandonata per alcuni anni la vita politica, Francesco Cossiga intravide nel 1998 la possibilità di riprendere il grande schema di Aldo Moro, che auspicava la collaborazione della grandi forze nazionali di matrice “popolare” e di quelle della sinistra post comunista nella gestione del governo. Mise il suo prestigio e la sua straordinaria capacità di manovra, assieme a Mino Martinazzoli,  al servizio del “ribaltone” che sottrasse parlamentari (guidati da Mastella e Rocco Buttiglione) dal Polo della Libertà che li aveva eletti e li portò a garantire quella maggioranza al governo di Massimo D’Alema che non aveva nella sinistra la forza parlamentare per ottenere la fiducia. Indicativa dell’uomo e della sua vocazione, fu la scelta del nome del partito che i transfughi formarono: Udr, Unione Democratica per la Repubblica. L’identica sigla del partito Udr fondato in Francia  nel 1971 da Charles de Gaulle, la figura di leader europeo che più sentiva vicina e tra le più ammirate. Fu però un’esperienza effimera e rovinosa, la sua Udr ebbe vita confusa e grama (si trasformò nell’Udeur di Clemente Mastella, dall’inglorioso percorso), trascinata nel vortice di uno dei governi più scialbi, inconcludenti e rovinosi della storia repubblicana che si concluse dopo appena due anni nelle ingloriose dimissioni di Massimo D’Alema.

Un obbiettivo però era stato colto dal genio politico del Picconatore: con quella spregiudicata manovra, Cossiga era riuscito ad evitare che il nostro paese provocasse una vera e propria crisi –vergognosa, per come si stava profilando – sul terreno internazionale. Per sua forte, determinata pressione, anche sul piano personale, Massimo D’Alema, obtorto collo, accettò di fare entrare l’Italia a pieno titolo (ma sempre con molte ipocrisie), nella guerra del Kosovo. Guerra in cui la sinistra non voleva assolutamente entrare (Fabio Mussi, capogruppo dei Ds alla Camera, riuscì a far firmare da ben 253 parlamentari della sinistra una mozione più che  critica contro la nostra partecipazione bellica) e in cui una defezione italiana sarebbe stata sotto gli occhi del mondo a causa della collocazione strategica del nostro paese (gli aerei Nato decollavano da Aviano), provocando irrisione, irritazione e la ingloriosa fine, di fatto, della appartenenza atlantica dell’Italia.

A differenza del Verde tedesco Joschka Fischer che ebbe la statura e la limpida forza di un leader della sinistra che rivendicava apertamente la necessità di inviare la Luftwaffe a bombardare Belgrado, Massimo D’Alema mandò sì la nostra aviazione nelle missioni contro la Yugoslavia, ma con indegna ipocrisia mentì al Parlamento e al paese e sostenne che avevano solo e unicamente un ruolo di ricognizione, mentre invece parteciparono direttamente alle operazioni belliche, bombardamenti inclusi. Chiusa quell’esperienza, Cossiga si ritirò definitivamente dall’agone politico, ma continuò a divertirsi (era fantastico cogliere il senso dell’ironia e dell’intelligenza nei suoi dissacranti sarcasmi), commentando episodi politici e dettando all’amico di sempre Paolo Guzzanti memorie dissacranti, quanto autentiche.

Nelle ultime settimane, la “belva”, quella terribile depressione che l’ha sempre perseguitato, si è impadronita di lui, chiuso in se stesso e al mondo come non mai. Infine, l’ha preso, ha vinto, definitivamente e ci ha tolto un uomo, forse l’ultimo in Italia, a cui guardare per capire e capirsi. Con profonda, acuta, divertita, scanzonata “intelligenza” degli uomini e dei fatti. Chapeau! Presidente.