
Covid: la lezione di Trump e la spirale mortale della vecchia Europa

06 Ottobre 2020
“Non abbiate paura”. E’ un messaggio dagli echi “woityliani” quello che è risuonato dalla Casa Bianca nel giorno in cui Donald Trump è stato dimesso dal Reed Medical Center dopo un ricovero di tre giorni a causa del Covid-19. “Non abbiate paura del Covid. Non lasciate che esso condizioni la vostra vita … Siamo il più grande paese del mondo. Stiamo tornando a dove eravamo”.
Sono parole forti: un messaggio di speranza e di ottimismo che un leader politico e un capo di governo dovrebbe sempre comunicare ai propri concittadini, tanto più in un periodo difficile segnato da un’epidemia che ha provocato una profonda crisi economica ed occupazionale. E’ un messaggio che noi italiani, come molti europei occidentali, vanamente abbiamo atteso in tutti questi mesi dai nostri governanti. I quali invece sono repentinamente passati in larga parte da una superficiale sottovalutazione dell’infezione da Coronavirus ad una sua enfatizzazione catastrofistica, tradottasi in restrizioni autoritarie e in una vera psicosi depressiva indotta nelle popolazioni. Una linea che non ha però prodotto certo risultati incoraggianti né nel contrasto al virus (che nell’Europa occidentale ha riscontrato i tassi più alti di mortalità e letalità) né nella limitazione dei danni economici ad esso connessi (negli stessi paesi la recessione ha toccato i livelli più profondi).
Trump ha seguito una strada molto diversa: analoga in realtà per molti versi a quella intrapresa da molti governi del centro, Nord ed Est del Vecchio Continente (anche se i nostri media ce ne parlano poco), ma con specifiche caratteristiche adeguate al contesto statunitense. Non ha affatto sottovalutato gli effetti del Covid, come in molti tra i suoi detrattori preconcetti gli hanno rimproverato (affibbiandogli il solito, stucchevole epiteto demonizzante di “negazionista”), ma ha affrontato la questione sanitaria con sano realismo, contemperando la salvaguardia della salute pubblica con quella dell’economia nazionale, e cercando di evitare che l’epidemia innescasse una spirale perversa di paura, crollo dei consumi, recessione, disoccupazione. La struttura federale degli ordinamenti del suo paese, che assegna ai singoli stati la gestione della sanità, gli ha permesso di lasciare che i governatori dessero risposte differenziate ed elastiche alla crisi, evitando di spingere eccessivamente il pedale “emergenzialista”. Una scelta di buon senso, che ha limitato complessivamente l’impatto della malattia in termini di vite perdute (minori in rapporto ai casi rispetto a gran parte degli Stati dell’Unione Europea), ha diluito nel tempo il contagio sul territorio nazionale, e al contempo ha contenuto i suoi effetti sull’economia (Pil e occupazione hanno mostrato segni di notevole ripresa già da maggio in poi).
Contemporaneamente, il presidente statunitense non ha mai smesso di infondere fiducia nelle potenzialità della ricerca in corso nel suo paese sul vaccino, ma ancor prima sulle terapie contro il virus (anche andando ripetutamente contro l’ortodossia dell’Oms), e ha continuato a sostenere che l’infezione viene contrastata con sempre maggiore successo, tanto da essere ormai sotto controllo. Tesi che ha ribadito con ancora più energia proprio nel momento in cui è stato contagiato dal virus e si è trovato, come tanti americani, nella condizione di paziente.
Una condizione che i soliti detrattori hanno subito additato come una sua personale disfatta (secondo l’assurda idea per cui i “negazionisti” si ammalerebbero di più, e questo rappresenterebbe la smentita delle loro teorie), ma che Trump, da consumato comunicatore, ha invece prontamente ribaltato a proprio favore: usando il proprio caso personale per ribadire con la massima evidenza che il virus si può curare, che difficilmente è pericoloso o letale anche in persone anziane come lui, che l’allarmismo è ingiustificato, che bisogna guardare avanti e tornare alla piena normalità.
Ha, il presidente, strumentalizzato al massimo la sua guarigione per fini elettorali? Certo, c’è una campagna presidenziale in corso e come sempre tutto fa brodo: sarebbe stato strano non lo avesse fatto.
Nonostante tutti questi sforzi, rischia di perdere le elezioni contro Joe Biden, sfidante dalla figura esattamente speculare alla sua, tanto monocorde quanto egli è vulcanico e “larger than life”?
E’ possibile, se si guarda agli attuali sondaggi (senza dimenticare però i clamorosi errori dei sondaggi stessi nelle elezioni precedenti), e soprattutto se si considera la “regola” delle consultazioni presidenziali statunitensi secondo cui è molto difficile per un presidente in carica essere eletto se gli indicatori economici sono negativi.
Ma proprio alla luce di questo aspetto si comprende ancor meglio come Trump non avrebbe potuto comportarsi, nel difficile scenario di questo 2020, in modo diverso. Prima del Covid, la sua rielezione appariva largamente prevedibile, in quanto mai, dal primo periodo della presidenza Clinton, il Pil, l’occupazione e le retribuzioni negli Stati Uniti si erano assestati su livelli tanto alti. Alla luce del traumatico cambiamento apportato dalla pandemia, il presidente ha seguito la linea più logica sia per le sue speranze di vittoria che per la sua idea di un paese dinamico, in espansione, che massimizza al massimo le proprie potenzialità: ha cercato di tenere basso il termometro dell’allarme e tenere ferma la barra del “business as usual”, per facilitare la resistenza e la ripresa del paese. Ora, che riesca o meno a vincere il 4 novembre, si può già dire che ha compiuto la sua missione.