Credenti e non credenti: una ricerca comune

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Credenti e non credenti: una ricerca comune

25 Ottobre 2006

Dostoevskji lanciò con vigore eversivo nei confronti dell’ideologia clericale, speculare a quella mondana ed atea, la dimensione drammatica della scelta esistenziale a fronte della verità, destinata a segnare la storia dell’uomo moderno e, in larga misura, anche il nostro presente: “Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità”. Un posizione-limite e apparentemente disorientante, che aveva già colpito Simone Weil, certamente sintomatica di una domanda di verità che non riesce, paradossalmente, a fare a meno di Cristo. Il rifiuto della “verità” di cui parla qui il grande scrittore russo è necessario per approdare a Cristo, perché quella “verità” è pura ideologia, astratto calcolo intellettuale. Questa posizione-limite ritrova spessore nella filosofia personalista di origine drammatica e kierkegaardiana del Pareyson di Esistenza e persona, un punto di vista sull’essenza del cristianesimo che segna un avanzamento della coscienza storica della crisi, ma ascoltando con attenzione il fluire di queste parole ci accorgiamo che sono scritte per gli uomini e le donne del nostro tempo.

Leggiamo il passaggio in questione: “Il compito della filosofia, oggi, è proprio quello di trovare (…) la soluzione della crisi, in modo da venire incontro all’esigenza di verità avanzata dalla coscienza contemporanea. Il che significa che oggi è necessario ridare alla filosofia il suo valore speculativo, restituire alla filosofia il compito e la capacità di raggiungere una verità assoluta”. E’ questo lo spazio teorico ed esistenziale a partire dal quale Benedetto XVI indaga il presente e riceve, tenacemente, le domande di senso e di verità del nostro tempo. A Verona, il Santo Padre non ha ceduto agli ideologismi di facciata che cercano insistentemente di evacuare dal territorio della vita e della storia la domanda di senso e di verità, gli assoluti fondativi dell’esistenza. Anche quando siffatti interrogativi assumono la forma di una indecifrabile “nostalgia dell’assoluto” (George Steiner). Ancora una volta, e con vigore rinnovato, il Pontefice richiama la tradizione intellettuale di Guardini, Sciacca e Pareyson, avendo sullo sfondo l’esempio e il metodo di Giovanni Paolo II: la fede costituisce un’audace sfida al lògos e, a sua volta, si inserisce nella temperie storica come Lògos rivelato, Dio di Gesù Cristo.

Ecco allora che, sullo sfondo di questa costellazione teologica e storico-culturale insieme, il pensiero del più grande teologo dei nostri tempi, oggi Pontefice, recupera la tessitura paolina e giovannea inscrivendo le categorie della modernità nella historia salutis, nella storia della salvezza. “Avete compiuto una scelta assai felice ponendo Gesù Cristo Risorto al centro dell’attenzione del Convegno e di tutta la vita e la testimonianza della Chiesa in Italia. La Risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori”. Così Papa Ratzinger introduce lo spaccato centrale della sua riflessione teologica e storico-culturale declinata sapientemente a Verona.

La cristologia qui densamente in gioco favorisce non poco la curvatura felice delle provocazioni ecclesiali di questo teologo tedesco che ha fatto della coerenza intellettuale un caposaldo esistenziale, al pari di Guardini, suo maestro. Ratzinger segue la scia dell’essenza del cristianesimo, anche a Verona, per centrare e ricentrare il pensiero della fede, l’intellectus fidei, in Cristo Lògos Creatore e Fondamento della realtà essendovene bisogno oggi più che mai. Volendo chiosare puntualmente le fonti di questo momento teologico, dovremmo fare riferimento esplicitamente a San Gregorio di Nissa e alla cristologia dei Padri Greci in generale, soprattutto Sant’Atanasio. L’idea di fondo di questa teologia, chiaramente impostata da Atanasio, è la seguente: Il Verbo di Dio si è rivelato in un corpo per restituire all’uomo, creato dal nulla e conformato all’immagine di Dio, l’incorruttibilità e la conoscenza di Dio. Non a caso Ratzinger è il teologo del Verbo-Lògos e della Verbo Creatore (sono state recentemente ristampate le sue fondamentali lezioni sulla Creazione). Ci basti qui aggiungere soltanto, en passant, che anche l’Aquinate definiva precisamente l’essenza del pensiero teologico in termini acquisiti largamente da Papa Ratzinger: pensare “sub ratione Dei”. “Omnia autem pertractantur in sacra doctrina sub ratione Dei” (S.Th. I, q.1, a.7). Anima quodammodo omnia, l’anima del credente che investiga la realtà sulla base dei criteri della fede, dell’intellectus fidei, è aperta a tutto (omnia), riceve tutto e tutto restituisce generosamente attraverso il filtro della fede imbevuta di “ratio Dei”. Questa è la teologia cattolica così come la Tradizione la declina nei suoi nessi consequenziali e questa è la sostanza della metodologia ratzingeriana. Non a caso, le citazioni della sua prima enciclica, Deus caritas est, sono tutte di impianto cristologico, tutte, nessuna esclusa. Il dialogo con i laici non credenti si radicalizza e diventa produttivo non mettendo tra parentesi, quasi mimando l’epoché husserliana, la fede cristologia, sopravanzata da una non meglio definita “fede filosofica” di jaspersiana memoria, bensì, al contrario, radicalizzando l’affondo cristologico aprendo così un varco di comune ricerca della verità. La persona umana è quodammodo omnia, come l’anima di cui ragionava Tommaso d’Aquino, aperta all’Assoluto e sempre alla ricerca del vero, anche quando questa ricerca costa non pochi ostacoli e incomprensioni. L’uomo è capax Dei secondo Agostino. Cristo apre la porta della ricerca comune: ecco la novità trasgressiva e feconda di Benedetto XVI. E questa apertura travalica perfino quella originalissima “complexio oppositorum” (Carl Schmitt) che è da sempre la Chiesa, andando a radicarsi nel punto cruciale della domanda dell’uomo sull’esistenza, sul suo senso ultimo e sulle ricadute della prassi umana nella storia. Questa è la riproduzione ratzingeriana della historia salutis secondo il dettato magisteriale della Gaudium et spes n.22 (“Cristo, l’uomo nuovo”), che recita come segue: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm 5,14) e cioè di Cristo Signore.

Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è “l’immagine dell’invisibile Iddio” (Col 1,15) è l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime. Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”.

A questo livello, la teologia si intreccia con la domanda decisiva sul male e sull’agire umano còlmo di potenzialità e di ricadute nell’abisso del nulla; su questo crinale, le domande di ciascun uomo sono autentiche perle e sviluppi di una storia di dramma e di peccato. La storia, nel Ratzinger studioso di Bonaventura, è sempre istoria salutis, come abbiamo già detto, e insieme teologia della storia, cioè intelligenza malcerta ma non per questo trascurabile dei disegni di Dio sul destino umano. Un filosofo italiano, Remo Bodei, si è interrogato sui destini personali ed individuali, ebbene questo modo di porre le questioni penultime si intreccia, in Ratzinger, con le questioni ultime. Ecco lo spazio della domanda circa i fondamenti della laicità: non realtà da censurare, ma domande da inoltrare insieme. Perché la radice ultima della persona umana è divina, sia che vi sia coscienza del Fondamento ultimo e Divino, sia che quest’ultimo sia soltanto “a tentoni” riconosciuto, per dirla con San Paolo. Benedetto XVI parla alla civiltà occidentale, agli uomini in carne ed ossa, agli Stati, non meramente alla Chiesa: è l’a-clericalismo costituito come pensiero contemporaneo della transizione post-moderna. Mare aperto, non universo chiuso. Ratzinger è un filosofo cristiano della modernità. Da Hegel al suo pensiero, vi è un trait d’union nella filosofia tedesca della modernità: non a caso, Hegel comincia a mettere radici nella prima crisi della coscienza europea attraverso alcuni bellissimi “scritti teologici”, soprattutto nella sua “Vita di Gesù”. Su questi sentieri interrotti, il pensiero ratzingeriano ritrova una specifica figura di laicità, che si definisce per una radicale inquietudine circa i fondamenti della razionalità moderna e della soggettività consegnata alla storia della modernità. “Io, ma non più io”, egli annota a Verona, cioè il superamento, che riecheggia il “Cogitor ergo sum” (il “sono pensato e dunque sono”, pensato dal Sommo Creatore, Lògos artefice della vita) di Balthasar, suo amico e compagno di ventura nella rivista teologica internazionale “Communio”. Il pensiero laico contemporaneo – da Finkielkraut che rilegge l’esperienza vitale di Péguy a Slavoj Zizek, che scrive un trattato di “ontologia politica” zeppo di riferimenti teologici e biblici, per giungere al grande Michel Henry, autore di una magnifica prova di “filosofia del cristianesimo” – grida e spinge in avanti l’interrogazione senza più mutuare più le risposte dai padri classici illuministi, ma verificando, alla prova delle zone d’ombra del presente, il detto e il contraddetto della Ratio.

Tutti sono chiamati a questa lotta della ragione, se vogliono essere moderni con la medesima coscienza critica di Kant; e ciò per la ragione immanente nelle cose, che non favorisce più le pose sterili e salottiere prive di dramma, ma acuisce il senso di smarrimento e, con esso, la prova ultima della fuoriuscita dagli stereotipi concettuali ed ideologici. Qui lavora Ratzinger, qui, e non altrove. Il suo appello razionale al “non possiamo non dirci cristiani” non è memorialistica e/o ideologico ed astratto furore celebrativo di posizioni ora neocon ora teocon, questa è spazzatura da gazzette; altro è l’orizzonte di questo grande uomo e Pontefice: la domanda sull’umanizzazione della storia a partire dalle comuni inquietudini, mai censurabili e scontatamente esaurite neppure nell’esperienza del credente.

Ecco il dato di fondo dal quale partire per ridefinire la figura della laicità post-novecentesca. Aveva ragione Horkheimer quando osservava che sull’apologia della ragione come cemento della coesione sociale e della sua riproduzione intelligente e consapevole “concordarono gli illuministi e i Padri della Chiesa”. Ratzinger è consapevole di questo fatto storico e culturale e opera come nuovo apologeta di una nuova razionalità. La laicità qui si ridefinisce come autocoscienza occidentale della potenza fondativi della cristianità, concepita come civiltà ed ethos comune. Laico, cioè cristiano. La “nuova ondata di illuminismo e di laicismo” di oggi, osserva giustamente Ratzinger, non ha niente a che vedere con la razionalità umana che scruta le ragioni del vivere insieme e del permanere insieme affratellati da scopi e destini comuni. Gli esiti deviati della razionalità umana c’nducono sia a forme deviate di amore, sia alla “secolarizzazione interna” della Chiesa stessa (ricordiamo le frustate dell’allora Card. Ratzinger alla Chiesa peccatrice durante quella celebre Via Crucis che ha visto il Santo Padre Giovanni Paolo II ascoltatore attento). Se la costellazione teologica e storico-culturale di Benedetto XVI, che qui abbiamo tentato di abbozzare, almeno nei suoi tratti costitutivi ed elementari, funziona efficacemente come punto-limite di rottura tanto con il clericalismo ideologico – che nega validità alle forze migliori del Paese in base ad una “scelta religiosa” intimistica che appoggerebbe infine ideologie secolari come coefficienti minimi di azione storica – quanto con l’ideologia laicista e il cosiddetto “umanesimo laicista” (Sciacca), allora abbiamo finalmente ritrovato la via maestra per pensare congiuntamente la fede e la ragione. In altri termini, il Novecento, che ha messo in artificioso conflitto la fede come scelta drammatica della libertà e la ragione come apertura al mistero ultimo dell’esistenza, è realmente finito. E, oltre il suo limite estremo, si apre la nuova scelta di fronte al paradossale evento del Lògos Creatore e Risorto. Chiudiamo con il filosofo con il quale abbiamo dato inizio alle nostre modeste riflessioni, Pareyson, il quale, di fronte all’evento di Cristo, sollecitava non minori domande, ma drammatiche prese di posizioni: “A me pare, e non è certo una novità quella che sto per dire, che questo sia proprio il problema centrale della cultura d’oggi, perché la crisi che stiamo vivendo, e che si rivela in mille manifestazioni diverse, e che più o meno si presenta alla coscienza di tutti, con maggiore o minore evidenza, con maggiore o minore chiarezza, sfumandosi attraverso una gamma di consapevolezze diverse, che vanno dal disagio materiale e psicologico sino al disagio spirituale e filosofico, la crisi attuale, dunque, è una crisi religiosa e filosofica” (Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova, 1985, p. 121). Una crisi ad un tempo religiosa e filosofica, la nostra, osserva Pareyson, che registrò come un sismografo perfettamente calibrato le dissonanze immanenti alla nostra società dai primi anni cinquanta, rimettendo le mani su questo testo per quattro, cinque volte. Attuale più che mai, sembra il teatro della crisi dei nostri giorni. Una crisi che non si supera con astratti furori ideologici e men che meno con volontarismi clericali, ma attraverso un percorso di unificazione delle domande e delle soluzioni, da qualunque parte provengano. Un percorso ad un tempo trans-politico e meta-ideologico. In formula: laico, cioè cristiano.
Cristiano, cioè laico.

Sandro Bondi ? il coordinatore nazionale di Forza Italia.