Crisi di governo? La Costituzione non prevede “maggioranze alternative”

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Crisi di governo? La Costituzione non prevede “maggioranze alternative”

18 Agosto 2010

Le continue polemiche sulle conseguenze di un’eventuale venir meno della maggioranza a sostegno del governo, alle quali assistiamo da quando si sono manifestati importanti dissensi all’interno dell’attuale compagione governativa, non sono puramente pretestuose. Le argomentazioni presentate su questo tema, spesso diametralmente opposte, affondano le loro radici in un problema cruciale ed irrisolto della nostra democrazia: il rapporto tra la costituzione scritta, la sua interpretazione, l’evoluzione del sistema politico e della cultura politica diffusa in merito al ruolo del governo e al significato autentico della sovranità popolare. 

Su questo punto, infatti, non è possibile un’interpretazione letterale ed univoca della Carta. Ogni opinione sulle scelte che può, o dovrebbe, compiere il Capo dello Stato oggi in caso di crisi implica necessariamente una valutazione storico-politica complessiva del rapporto tra costituzione "formale" e "materiale" maturata nel sessantennio repubblicano, ed in particolare nella transizione tra la "prima" e la "seconda" Repubblica.

Nella Costituzione i rapporti tra governo, parlamento e presidente della Repubblica in merito alla formazione e alla durata del governo stesso sono definiti da pochi articoli estremamente laconici e vaghi (la cui laconicità e vaghezza dipendevano, peraltro, dai difficili equilibri tra posizioni diverse e dai reciproci timori all’interno dell’Assemblea costituente). Nel capitolo dedicato ai poteri del Capo dello Stato l’articolo 88 recita: "il Presidente della repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse". A proposito del governo, l’articolo 92 sancisce che "il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri". Infine, nell’articolo 94 si dice che "il Governo deve avere la fiducia delle due Camere", e si prescrivono le procedure per la presentazione di eventuali mozioni di sfiducia. Come si vede, non si tratta certo di una descrizione accurata di ogni possibile casistica.

Nei primi decenni di vita della Repubblica si è imposta una "costituzione materiale" (un assetto multipartitico a base centrista, per la presenza di forti partiti anti-sistema a destra e a sinistra, fondato su un sistema elettorale proporzionale senza premi di maggioranza) che, a sua volta, ha favorito la prevalenza di una prassi interpretativa dei suddetti articoli più o meno nel senso seguente: in base ai rapporti di forza tra i partiti il Presidente della Repubblica (espressione a sua volta di un compromesso ampio tra i partiti stessi) nomina un Presidente del consiglio incaricato di ricercare una coalizione in grado di assicurarsi la maggioranza parlamentare; se questa coalizione si rompe, attraverso le consultazioni con i partiti il Presidente della Repubblica affida un nuovo incarico per verificare se è possibile trovare un nuovo equilibrio di coalizione; soltanto se, infine, ogni tentativo in tal senso si rivela impossibile, il Capo dello Stato scioglie le Camere e indice nuove elezioni.

Naturalmente, questa non è la, ma soltanto una tra le possibili interpretazioni del dettato costituzionale. Essa si è imposta fino a che, a partire dal contesto "di sistema" sopra delineato, è riuscita ad assicurare il maggior grado di stabilità possibile nella vita delle istituzioni in relazione ai rapporti di forza esistenti. Da quando però, nei primi anni Novanta del XX secolo, il baricentro del sistema politico è slittato repentinamente da un assetto consensuale-consociativo-centrista ad un nuovo modello bipolare-competitivo, sull’esempio delle maggiori democrazie occidentali, è andata maturando una nuova "costituzione materiale" che non poteva non influire sull’interpretazione di quella formale, soprattutto riguardo al decisivo punto della vita dell’esecutivo e dello scioglimento delle Camere.

Nonostante le molte forze che hanno cercato di orientare il sistema ricostituendo la continuità con le prassi del passato, a partire da allora il nuovo sistema elettorale (prima maggioritario-uninominale, poi proporzionale con premio di maggioranza) e, soprattutto, la cultura politica ormai largamente condivisa nell’opinione pubblica hanno favorito sempre più l’affermarsi dell’idea secondo cui le elezioni parlamentari non rappresentano l’atto preliminare, ma quello decisivo ai fini della definizione di una maggioranza di governo e dello stesso Presidente del Consiglio. Corrispondentemente, si è andata radicando nell’elettorato la convinzione che il governo, entrato in carica in base all’investitura ricevuta dal corpo elettorale, possa essere sostituito da un altro governo di diverso orientamento soltanto attraverso un’investitura analoga, cioè attraverso nuove elezioni.

Nella "costituzione materiale" del bipolarismo competitivo il requisito della fiducia parlamentare conserva il suo valore, ma con il preciso limite della sua rispondenza al volere espresso dagli elettori. Nello stesso senso, la nomina del Presidente del Consiglio da parte del Capo dello stato viene considerata non più una scelta, ma sostanzialmente un obbligo, quello di attribuire la guida del governo al leader dello schieramento vincitore nelle urne. E nel caso la maggioranza uscita dalle elezioni dovesse venire meno, la scelta di sciogliere le Camere e indire nuove consultazioni da parte del Capo dello Stato viene ritenuta non una extrema ratio, ma la scelta più logica e più rispondente alla democratica manifestazione della volontà popolare.

Dal punto di vista degli equilibri e del "senso comune" politico nel nostro paese, nessuno può negare che attualmente le cose stiano in questi termini. Non casualmente, del resto, il sistema elettorale – ma precedenetemente già la prassi si era spontaneamente evoluta in questo senso – ha sancito ormai la validità della pretesa, da parte degli elettori, di indicare direttamente il capo del governo attraverso la comparsa del nome dei candidati premier sulla scheda.

D’altra parte, è altrettanto innegabile che la "costituzione materiale" della "seconda Repubblica", con la relativa interpretazione del dettato costituzionale da essa favorita, sia in patente contraddizione con quella prevalsa nei decenni precedenti. Su un piano puramente formale non è possibile stabilire se sia più "vera" l’una o l’altra interpretazione, perché esse, appunto, non si possono pensare fuori dalla concreta relazione con l’assetto politico complessivo vigente in una determinata epoca.

Non si può, insomma, sostenere a priori che un Capo dello Stato rispetti, o tradisca, la Costituzione se in caso di caduta della maggioranza uscita dalle urne egli scioglie le Camere, o se viceversa egli cerca di accertare l’esistenza in esse di una eventuale maggioranza alternativa, sia pure confliggente con l’orientamento espresso dagli elettori. La scelta del Presidente in proposito non è mai astrattamente legalistica, ma risponde sempre ad una logica storico-politica.

Ma proprio per questo stesso motivo, nel compiere la sua scelta il Capo dello Stato non può non tenere nella dovuta considerazione la cultura politica e gli equilibri di sistema prevalenti nell’epoca in cui il problema a lui si pone. Nel sistema costituzionale britannico, in assenza di una costituzione scritta, nulla prescrive al re o alla regina di attribuire l’incarico di governo al capo del partito vincitore delle elezioni, o di sciogliere la Camera dei Comuni quando egli lo richiede. Ma, in base ad una convenzione che ha prodotto una prassi storicamente consolidata, l’opinione pubblica è abituata ad attendersi che il monarca si comporti in tale modo: ogni eventuale azione difforme rispetto a questi criteri verrebbe universalmente considerata come una provocazione eversiva, e provocherebbe una sollevazione popolare.

Nella democrazia italiana, come in quelle di molti altri paesi, su questo punto norme costituzionali esistono, ma non sono applicabili automaticamente, ed esigono analogamente l’integrazione delle convenzioni, della prassi, del costume. Tali fattori oggi convergono ormai nell’opzione per un modello di democrazia parlamentare in cui il potere esecutivo venga direttamente indicato dagli elettori. Certo, quell’opzione si scontra poi con il dato di fatto di un potere esecutivo fortemente ristretto nei suoi effettivi margini d’azione da una folla di "anti-poteri". Ma questo è un altro discorso, più strettamenmte legato al "nocciolo duro" del sistema costituzionale.

Affermare comunque, come qualche esponente politico pure temerariamente ha fatto in questi giorni, che in caso di crisi di governo il Presidente sarebbe costituzionalmente "obbligato" a ricercare una maggioranza alternativa significa sostenere una tesi assolutamente infondata da qualsiasi lato la si esamini: sia da quello della "costituzione materiale" storicamente maturata nel paese, sia da quello della "costituzione formale", che come si è visto non dice nulla in proposito.