Da Bruxelles segnali di debolezza. L’Europa sbaglia a temere la Russia

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Da Bruxelles segnali di debolezza. L’Europa sbaglia a temere la Russia

03 Settembre 2008

Su Bruxelles piovono i complimenti da parte di Tbilisi e di Mosca. Come è possibile che due parti in conflitto siano d’accordo nel premiare la linea dell’Ue? La Georgia vede riconosciuta (dalla dichiarazione del Consiglio Europeo) la propria rivendicazione a recuperare l’integrità territoriale. La Russia, che ha già separato le due regioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud dalla Georgia e dunque ha già raggiunto il suo obiettivo principale, è soddisfatta dall’assenza di rappresaglie concrete da parte dell’Ue. 

Come hanno annunciato sia la presidenza di turno francese, sia il presidente della Commissione Europea José Manuel Barroso, l’Ue ha parlato con una sola voce. Le previste divisioni tra la linea dura (Polonia, repubbliche baltiche e Gran Bretagna) e quella soft (Francia, Germania e Italia) non hanno impedito la stesura di una bozza comune. E si può anche capire il perché: rimandando a novembre i negoziati per la partnership, non prendendo neppure in considerazione l’applicazione di sanzioni alla Russia, non nominando neppure la possibilità di escluderla dal G8, escludendo anche la possibilità di minacciare l’esclusione di Mosca dalla lista dei candidati all’ingresso nel Wto appoggiati dall’Europa, l’Ue ha adottato una linea che può andare bene a tutti, anche al Cremlino. 

Forse l’Europa non poteva fare altro, come aveva previsto, prima del vertice di Bruxelles, anche Laza Kekic, direttrice dell’Economist Intelligence Unit per l’Est europeo: “Data la natura del commercio euro-russo e la dipendenza energetica dalle risorse russe di alcuni pesi massimi dell’Ue, non posso neppure immaginare che possano essere messe in agenda sanzioni economiche”. Su tutti grava la minaccia del rubinetto del gas russo, che può essere chiuso dal Cremlino in ogni momento con conseguenze pesantissime per la nostra economia. Quella dell’Italia specialmente: scelte energetiche fatte dai passati governi ci hanno resi particolarmente dipendenti da Mosca, fino al 32% del nostro fabbisogno nazionale di gas. Lo ha fatto capire a chiare lettere il Presidente del Consiglio la mattina prima dell’inizio del vertice europeo: “La Russia non solo è una grande potenza militare e nucleare, ma è anche un importantissimo fornitore di petrolio e di gas. E noi abbiamo bisogno di quel petrolio e di quel gas e non possiamo certo permettere che Mosca, anziché darlo all’Occidente e ai Paesi europei, decida di darlo alla Cina”.

In Europa è un destino comune: anche la Germania, la Polonia, le repubbliche baltiche, pendono dalle decisioni energetiche del Cremlino. Mosca questo lo sa bene e sull’atteggiamento dei nuovi membri orientali dell’Ue, l’ambasciatore russo presso la Nato, Dmitrij Rogozin, si è anche permesso un commento sarcastico: la loro politica sarebbe "…il prodotto dell’immaginazione infiammata del presidente polacco (Lech) Kaczynski e dei suoi omologhi dei Paesi baltici. Possono permetterselo, sanno che le decisioni su cui insistono non saranno prese". Quanto alla possibilità di sanzioni Ue, prima del vertice lo stesso ambasciatore ci rideva sopra: “Sanzioni? Per l’Ue sarebbe come strapparsi il fegato e gettarlo nella spazzatura”. La minaccia del gas è esplicita: da lunedì (il giorno del vertice di Bruxelles), casualmente, il gasdotto che collega la Russia alla Polonia e alla Germania è stato chiuso per “motivi tecnici” e lo è rimasto fino ad oggi. Giusto per ricordarci in che mani è il rubinetto. 

Ogni volta che si parla di Russia, l’Europa appare come una piccola penisola occidentale dell’Eurasia, aggrappata alla canna del gas russo. Ma abbiamo realmente le mani così legate? O l’Ue ha le carte in regola per parlare anche con la durezza necessaria? Da un punto di vista economico, la crescita russa dipende più dalle esportazioni di gas e petrolio che non dalla necessaria modernizzazione del suo sistema. Yegor Gaidar, il primo premier russo del periodo post-sovietico lo ha sottolineato più volte: “La Russia di oggi ha un’economia dipendente dal petrolio e dal gas” – scriveva in un paper dell’American Enterprise Institute l’anno scorso – “Nessuno può prevedere con certezza le fluttuazione del prezzo delle materie prime. Il collasso dell’Urss dovrebbe servire come lezione per coloro che fanno una politica basata sull’assunzione che i prezzi rimarranno costantemente alti. Questa lezione sembrerebbe facile da imparare in un Paese come il nostro che ha vissuto il collasso tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90. Ma non appena i prezzi del petrolio hanno ricominciato a salire all’inizio degli anni 2000 l’idea che ‘gli alti ricavi saranno perpetui’ si è nuovamente imposta”.

La Russia dipende dal petrolio e dal gas che acquistano gli europei. E un cambio di clienti non potrebbe essere immediato. Il Medio Oriente, ricchissimo di risorse energetiche, non ha bisogno del gas e del petrolio russi. La Cina è potenzialmente un buon mercato, ma non ha ancora una capacità industriale paragonabile a quella dei Paesi europei, né lo stesso livello di sviluppo delle infrastrutture. Un riorientamento del mercato russo potrebbe avvenire, ma solo nel medio periodo. Nel frattempo l’Europa potrebbe rendersi indipendente dalla Russia? Sì, se necessario. Il gas può essere importato in forma liquida e rigassificato. Il greggio estratto a Baku (Azerbaijan) già viene importato tramite l’oleodotto Btc, che passa proprio dalla Georgia: l’Europa avrebbe tutto l’interesse a impuntarsi sull’indipendenza georgiana anche per garantirsi quel canale di rifornimento alternativo. 

La crescita industriale della Russia, dopo la catastrofe degli anni ‘80 e ‘90, è ancora agli inizi. I russi hanno bisogno degli investimenti occidentali per far decollare l’economia. La guerra mossa dalla Russia alla Georgia ha già bruciato miliardi di dollari di investimenti in pochi giorni: Mosca non può permettersi un beato isolamento, non può ignorare la prospettiva di entrare nel Wto, né quella di una partnership con l’Europa. E si vede. In tempi sovietici, quando l’Urss faceva realmente a meno del resto del mondo, il Cremlino mandava il suo esercito a rovesciare i regimi non allineati nella sua sfera di influenza: così fece in Ungheria, in Cecoslovacchia e in Afghanistan. Oggi l’esercito russo non entra in Tbilisi. E per allontanare l’indesiderato Saakashvili, Mosca non lo arresta, ma preferisce appellarsi alle nazioni amiche per imporre un embargo alla Georgia. Questo perché la Russia di oggi, contrariamente all’Urss di ieri, ha bisogno dei consensi e degli investimenti internazionali. 

Sul numero di ieri di Newsweek, il politologo Fareed Zakaria rispondeva a tutti coloro che parlano di rinascita della potenza sovietica in questi termini: “L’attacco alla Georgia non sarà ricordato come l’alba di una nuova era russa, ma una sconfitta strategica per la Russia. Basta stare ai fatti: la Russia ha spaventato i suoi vicini, inducendoli a gettarsi nelle braccia dell’Occidente. (…) Vladimir Putin ha riavvicinato le due sponde dell’Atlantico più di quanto non avrebbe potuto fare un Barack Obama. Gli Usa e l’Europa ora sono d’accordo su ogni questione di importanza strategica come mai era avvenuto negli ultimi 20 anni. Persino le autocrazie nel Caucaso hanno reagito negativamente all’attacco russo, rifiutandosi di avallare le decisioni di Mosca e di riconoscere la nuova realtà sul terreno. La Cina ha negato il suo appoggio. E cosa ci ha guadagnato la Russia? Settantamila cittadini osseti”.

Ma non è solo per ragioni economiche che l’Ue non è determinata ad affrontare a viso aperto un avversario così debole come la Russia di oggi. Qui entra in gioco anche un malcelato senso di colpa: il precedente riconoscimento del Kosovo. Sono in molti a pensare che l’indipendenza kosovara e la guerra contro la Serbia che la rese inevitabile già nel 1999, siano una colpa europea e americana e che Putin non abbia fatto altro che renderci lo stesso servizio in Georgia, riconoscendo unilateralmente la secessione di Ossezia del Sud e Abkhazia dalla Georgia, dopo una breve guerra contro Tbilisi. Ma i due casi non sono paragonabili, se non in astratto. I Paesi della Ue e della Nato avevano intavolato trattative con la Serbia sin dall’inizio del conflitto kosovaro nel 1998. Sbagliata o giusta che sia, la decisione della Nato di intervenire militarmente è arrivata dopo: cinque mesi di repressione militare serba in Kosovo, una risoluzione di condanna della violenza serba emessa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, tre mesi di trattative internazionali a Rambouillet per tentare (senza successo) di giungere a un cessate-il-fuoco, più un ultimo tentativo in extremis di riportare Milosevic al tavolo negoziale condotto da Holbrooke a Belgrado. 

L’intervento militare fu volutamente limitato perché mirava a riportare la Serbia al tavolo negoziale (la NATO non penetrò in territorio serbo come hanno fatto i russi in quello georgiano). E alla guerra è seguito l’invio di una forza di pace multinazionale, comprendente anche forze russe simpatizzanti con la causa serba (rimaste sul posto dal 1999 al 2003). Al contrario, la crisi in Georgia è stata sempre trattata da Mosca come una sua “questione interna” da condividere al massimo con gli altri Paesi della Csi (a guida russa), escludendo del tutto la comunità internazionale. Ai primi segnali di guerra contro l’Ossezia del Sud, Mosca è intervenuta unilateralmente contro la Georgia, violandone la sovranità nazionale senza neppure informare l’Onu. 

Non può sfuggire, inoltre, quanto la Russia sia incoerente nella sua affermazione dell’autodeterminazione dei popoli. Il Cremlino sostiene questo principio quando sono delle minoranze filo-russe ad essere minacciate, ma quando si parla di popoli non russi che chiedono l’indipendenza da Mosca allora torna a parlare della inviolabilità assoluta della sovranità nazionale. Proprio il giorno prima del vertice di Bruxelles si consumava un altro episodio di repressione nella regione caucasica: il proprietario di un sito Internet che denunciava l’oppressione nell’Inguscezia da parte del Cremlino, è stato arrestato e ucciso dalla polizia. Mosca ha aperto un’inchiesta sull’omicidio e la tesi ufficiale, per ora, è quella dell’“incidente”: il dissidente si sarebbe sparato da solo alla tempia (e poi sarebbe stato gettato morente fuori dall’auto della polizia) perché avrebbe cercato di rubare una pistola ad un poliziotto. Le autorità russe, d’altra parte, si possono permettere questo atteggiamento, sfidando il senso del ridicolo. Trovano normale intervenire in difesa dei loro “fratelli” in Georgia (e un domani, magari, anche in Ucraina), ma sanno che nessuno violerà mai la sovranità della Russia per difendere i diritti dei cittadini dell’Inguscezia, della Cecenia e di tutte le altre regioni che vogliono l’indipendenza. Il Cremlino insiste nel suo atteggiamento doppiopesista, perché noi europei glielo permettiamo.