
Da Carlo Giuliani a SPQR. Cosa accade se simboli e parole non contano più

03 Ottobre 2010
Il grande chimico francese Antoine-Laurent de Lavoisier fatto ghigliottinare nel 1794 da Robespierre – «La Repubblica non ha bisogno di uomini di scienza» pare gli avesse detto Jean-Baptiste Coffinhal, presidente del Tribunale rivoluzionario – è famoso per aver enunciato la legge che in natura "nulla si crea, nulla si distrugge ma tutto si trasforma". Sarebbe una legge universale, valida in tutti i tempi e in tutti i luoghi, se non fosse smentita dal nostro paese. Sì, perché se in Italia, come altrove, nulla si crea e nulla si distrugge, non è affatto scontato che tutto si trasformi. Ci sono cose che si ripresentano, a intervalli più o meno regolari, con una stupefacente monotonia. Tra queste un posto d’onore va alla tendenza, comune alle forze di governo e di opposizione, a trasferire una conflittualità sempre più elevata e priva di sfogo nella concretezza dell’agire politico, sul terreno dell’insulto ai simboli dell’avversario. Quando un partito non riesce a fare nulla – né a realizzare le riforme, né a provocare la caduta di un ministero -, per tenere il suo seguito elettorale sempre in stato di potenziale mobilitazione, ricorre a una risorsa infallibile: la programmazione della provocazione e dell’indignazione mediante la dissacrazione dei valori.
Il gioco da noi riesce giacché dalla ‘società aperta’, la base storica su cui poggia la democrazia liberale coi suoi diversi ‘stili di vita’ e le differenti idealità non sempre compatibili, siamo passati alla ‘società spalancata’, che è la condizione in cui versano le comunità politiche in decomposizione, dove ‘si sente di tutto’, ognuno è libero di dire la sua e i legami che ci legano ad altri, alla tradizione, alla famiglia, alle varie affiliazioni sono quanto mai incerti e contingenti. Non avendo più radici nel passato e diffidando di ogni impegnativo progetto rivolto al futuro, i valori, che una volta plasmavano le condotte e ispiravano l’agire, sono retrocessi a ‘segni’, a indicatori di gruppi sociali. Il crocifisso è quella cosa a cui tengono quanti vanno a messa e si dicono cattolici, il tricolore è quel pezzo di stoffa che sventola sugli edifici pubblici di uno Stato estraneo e lontano, i cui funzionari in genere hanno un accento terronico. Sputare sul primo e stracciare l’altro esprime un’ostilità simbolica tanto più rabbiosa quanto più è consapevole che non si può colpire in altro modo l’avversario politico o ideologico.
La «dissacrazione», alle soglie dell’età moderna, aveva un significato profondo: definire l’ostia un po’ di farina compressa significava sostituirla, sull’altare, con la Dea Ragione che mette in fuga preti e superstizioni religiose. Oggi, tramontati i grandi racconti o, come meglio si dovrebbe dire, le ‘filosofie della storia’, il gesto sacrilego non accende nessuna lumière, non è la rivelazione della nudità del re da parte di chi è rivestito con gli abiti della verità. Chi vilipende la bandiera bianca coi gigli d’oro dei Borboni fa sventolare idealmente sul palco della ghigliottina un vessillo più denso di valori e carico di futuro, il tricolore bianco/rosso/blu della triade liberté/fraternité/egalité: sono i “funzionari del genere umano”, i dissacratori degli emblemi dell’ancien régime e del privilegio. Al contrario, chi getta nel fango il tricolore, adottato a Reggio Emilia (non a Foggia!) come emblema della Repubblica Cispadana il 7 gennaio 1797, su proposta del deputato Giuseppe Compagnoni, non fa certo battere i cuori degli ‘uomini liberi e forti’ per una bandiera ‘alternativa’ – quella col verde sole celtico (anche se rende più coesa la ‘tribù’, più o meno ampia, di riferimento). Nell’età dello scetticismo e della secolarizzazione anomica, se il mio re è nudo, lo è pure il tuo, venendo a mancare un principio-che ci trovi tutti d’accordo – in base al quale le mie credenze dovrebbero considerarsi superstizioni mentre le tue no. Ne consegue che il dileggio di una credenza fa pensare allo stadio e alle tifoserie rivali che si scambiano insulti del tipo «svegliati Vesuvio!» o, più spiritosamente «Giulietta è ‘na zoccola!» (la scritta con cui, diversi anni fa, i tifosi del Napoli, memori dell’invito rivolto dai veneti al loro amato vulcano, accolsero i tifosi del Verona).
Col passare degli anni, sempre meno «le parole sono pietre»: un’intifada continua, in una società scettica e secolarizzata come la nostra, ne consuma la consistenza e la capacità di offesa. E, quel che è peggio, assistere di continuo -e con tanta leggerezza- alla derisione dei propri santi finisce per incrinarne sottilmente il culto se i ‘blasfemi’ restano a piede libero a godere dei loro lazzi. Si verifica qualcosa che ricorda lo stato d’animo di chi, non potendo reagire con la violenza a chi ha dato della ‘prostituta’ alla moglie, è portato, suo malgrado, a un inconscio ‘deprezzamento’ della donna vilipesa e invendicata, che gli sta accanto. Anche nel mondo morale vige in qualche modo la regola del mercato: una persona, un ideale, un monumento hanno valore, per l’uomo comune (ovvero per tutti noi) finché sono «apprezzati» dalla generalità dei nostri simili: solo se ci si chiama Gandhi si benedice la Vita per l’esistenza del serpente a sonagli. Sentir dire che Garibaldi era un volgare ladro di cavalli e non vedere se non reazioni effimere e presto dimenticate a tale ‘provocazione’ (qualche dichiarazione di un politico, qualche articolo sulla stampa) induce anche il più generoso cultore di memorie risorgimentali a percepirsi come un ‘tifoso’ – della squadra Garibaldi – piuttosto che come un cittadino profondamente partecipe dei ‘miti fondatori’ della nazione. Non a caso i detrattori del Risorgimento fanno cadere gli idoli della storiografia ufficiale ma non sostituiscono, nei cuori dei loro superficiali lettori, Franceschiello o Papa Mastai a Cavour e a Mazzini.
I simboli sono forti e rispettati quando sono vessilli di eserciti combattenti, quando, invece, sono chiamati a sostituire le armi, quelle vere, diventano bolle di sapone che gli avversari si divertono a far scoppiare sicuri dell’impunità.
Negli ultimi tempi, le cronache politiche hanno registrato tre casi emblematici. Il primo – cito dal ‘Corriere della Sera’ del 19 luglio u.s. – riguarda il governatore della Puglia: «‘Vincere per le donne e gli eroi dei nostri giorni – declina il suo pantheon Vendola – come Falcone, Borsellino e Carlo Giuliani’. L’ “eroe ragazzino”, così lo definisce, ucciso da un carabiniere a Genova, quando “una generazione perse l’innocenza e fece i suoi conti con la morte”. Chiunque sarà, il candidato premier del Pd dovrà vedersela con lui.»
Il secondo – cito dal ‘Secolo XIX’ del 27 settembre u.s. – si riferisce all’infelice battuta di Bossi: «Dopo il federalismo si farà il decentramento dei ministeri’ che non possono stare tutti a Roma, dove trovi le scritte `S.P.Q.R., cioé Senatus Populusque Romanus’, che qui al nord si dice Sono Porci Questi Romani’’. Lo ha detto Umberto Bossi intervenendo nella notte ad una selezione di Miss Padania a Lazzate (Monza-Brianza)».
Il terzo, di questi giorni, cito dal ‘Corriere della Sera’ del 30 settembre u.s. – riguarda il senatore Giuseppe Ciarrapico che, «nel suo intervento al Senato dopo il discorso del presidente del Consiglio» ha tuonato: «Fini ha fatto sapere che presto fonderà un nuovo partito. Spero che abbia già ordinato le kippah – ha aggiunto Ciarrapico, riferendosi al copricapo maschile usato dagli ebrei osservanti- perché è di questo che si tratta. Chi ha tradito una volta, tradisce sempre. Può darsi pure che Fini svolga una missione ma è una missione tutta sua personale. Se la tenga. Quando andremo a votare vedremo quanti voti prenderà il transfuga Fini».
Tre casi diversi ma egualmente emblematici. Il fatto che Vendola non abbia esitato ad accomunare Giuliani, un giovane e rabbioso ‘antagonista’, a due grandi servitori dello Stato non era privo di ‘logica’. L’assimilazione gli ha fornito un’identità culturale in grado di attirargli le simpatie dell’«antipolitica», ha aumentato la sua visibilità, ha gettato un sasso nella piccionaia del Pd. E se, in seguito, il leader pugliese è stato costretto a correggersi e a rettificare, lo si è dovuto solo alla prudenza di chi non voleva perdere quell’ampia fascia di elettori ‘moderati’ del centro-sinistra che non apprezzano certi accostamenti.
Venendo al Senatur, che ha ripescato una battuta vecchia come il cucco, si può essere certi che non gliene fregava nulla di Roma e dell’ SPQR ma, sentendo aria di elezioni, ha voluto esibirsi in un’altra sparata antiunitaria, allo scopo di divertire e galvanizzare i suoi. Anche lui, però, ha dovuto far marcia indietro, e chiedere scusa agli abitanti dell’urbe ma, nel suo caso, il motivo va ricercato nella previsione che almeno fino a marzo non ci saranno le elezioni e, pertanto, la lega dovrà rimanere ancora alcuni mesi nel governo.
Quanto, infine, a Ciarrapico è stato addirittura rimbeccato (e giustamente) dal presidente del Consiglio che, in aula, non ha esitato a dichiarare «anch’io sono israeliano».
Tre episodi che meglio non potrebbero definirsi che ’tempeste in un bicchiere d’acqua’, tre pietose sceneggiate che non hanno lasciato nessuna traccia sulle sabbie della politica italiana. E tutto questo perché il copione déjà vu – la battaglia dei simboli sostituita alla battaglia reale – ultimamente si è arricchito. Un tempo il politico le sparava grosse e i suoi avversari elevavano alte grida al cielo: è intollerabile! Che vergogna! Mai caduti così in basso! Oggi gli animi prendono fuoco ma il fuoco si spegne quasi subito. Gli alleati sanno bene che nel cuore di Vendola c’è una culture (impropriamente definita libertaria!) che si colloca tutta, o quasi, all’interno dell’area antagonista – dai centri sociali al sindacalismo antisistema; quanti si ritrovano nel centro-destra liberale non ignorano cosa pensi il Senatur di Roma, dell’Italia, del Risorgimento etc. e sanno bene che uno come Ciarrapico non cambia ideologia a 76 anni. Ma per gli uni e per gli altri basta un piccolo passo indietro per ‘metterci una pietra sopra’, sicuri che gli stessi avversari seguiranno a ruota. (nella fattispecie, Bersani e Casini volevano far cadere il governo sulla buccia di banana dell’SPQR: dopo le scuse così ‘sincere’ di Bossi hanno ritirato tutto, per paura delle elezioni anticipate invece dell’auspicato governo di transizione..). Non perdonare un insulto o una provocazione (apparentemente) gratuita, quando tutto scivola via, espone al ridicolo, a far pensare agli altri «ma niente, niente questo fa sul serio?». Ci mancherebbe pure che si rinunciasse a un prezioso alleato per via di una battutaccia!
«Le parole tra noi leggere» così possono definirsi quelle della politica italiana, falò di paglia che avvampano, per un attimo, i volti e poi si perdono nell’indifferenza e nell’oblio generali. Il guaio è che, con le parole, si consumano i simboli e, con i simboli, i valori che fanno di una disordinata accozzaglia di gruppi sociali una società politica, una comunità di destino.
Non vorrei librarmi sulle ali della metafisica ma se dovessi spiegarmi le ragioni di questo inarrestabile deperimento/svuotamento delle ‘fedi’ nella nostra società sarei tentato di ricorrere alla rimozione collettiva della morte. Per dirla con parole semplici, è l’ombra della morte -insita nella violenza minacciata o erogata che può tradursi anche nel deserto fatto attorno a un individuo, un deserto non a caso assimilato a una ‘morte civile’ – a rendere ‘pesanti’ e rispettati simboli, credenze, istituzioni. In una società in cui tutto è opinione, le opinioni sono tutte rispettabili e stanno tutte sullo stesso piano e l’arena politica è, come nel film di Edmund Goulding, un ‘Grand Hotel’ (1932) di «gente che va, gente che viene», i valori si «alleggeriscono», uno «vale» l’altro e tutti insieme valgono zero.
Nella società democratica classica, le credenze non vengono fatte rispettare dalla spada e dall’aspersorio ma da quella spessa coltre morale tessuta dal basso, (dalla ‘società civile’) che commina pesanti sanzioni, in termini di stima pubblica, a quanti offendono gli ‘dei’ (che, nel caso della suddetta società democratica e liberale, sono diversi ma tutti rispettati e rispettabili -v., in certi racconti nostalgici della vecchia Europa, alla Stefan Zweig, la stima reciproca che legava il vescovo al rabbino e persino al presidente della società degli atei…). Oggi l’imperante filosofia pseudo-libertaria – già definita dal «Maestro di color che sanno» come lo stile di vita per cui «ciascuno vive come vuole e, come dice Euripide, secondo il suo capriccio» (Aristotele, La Politica, V, 1310) – ha fatto sì che nelle democrazie malate, si sciogliessero le righe. Col risultato – intuito in pagine di straordinaria penetrazione il De Maistre dei tempi moderni, Augusto Del Noce – dell’ erosione del terreno della ‘stima pubblica’ e dell’evanescenza della morale che, da sfera distinta dalla politica – quale l’aveva pensata una grande e nobile tradizione intellettuale, da Machiavelli a Croce, da Weber ad Aron – , è diventata un cavaliere inesistente, come se la separazione dalla politica (peraltro non sempre consensuale) l’avesse uccisa.
Devitalizzata, come un dente cariato, la morale, che in forme laiche o religiose, nelle democrazie ‘reali’, non tiranneggiava il diritto e la legislazione (come accadeva e accade negli stati teocratici) ma ne costituiva l’humus nascosto, al suo posto è rimasto solo qualche brandello di etica pubblica. Dico qualche ‘brandello’ giacché siamo ormai arrivati al punto che in un raduno padano si può considerare la presenza del tricolore una provocazione e, in una pubblica cerimonia, la terza carica dello Stato può rifiutarsi di rendere omaggio alle Forze Armate, presentandosi sul palco delle autorità con un distintivo pacifista. A ben riflettere non ci resta che l’evasore fiscale come unico esempio condiviso «da tutti» di figura morale spregevole. E sicuramente più condiviso del pedofilo, che taluni politici ‘libertari’ giustificano e difendono sia pure a bassa voce (per ora).