Da Mao alle Olimpiadi: lo yuan è il nuovo simbolo della Cina che cresce

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Da Mao alle Olimpiadi: lo yuan è il nuovo simbolo della Cina che cresce

10 Settembre 2008

Ci sono molti modi per valutare i progressi politici, economici, sociali di una nazione. Uno del tutto particolare, perfetto quando si parla di Cina, è analizzare la storia della sua moneta. L’anno prossimo il renminbi (o yuan), festeggia 60 anni. La sua registrazione ufficiale, infatti, risale al 1949, lo stesso anno della nascita della Repubblica Popolare (a proposito: sarà interessante verificare come la Cina ricorderà, o NON ricorderà, il fondatore Mao tra pochi mesi). 

La “moneta del Popolo” all’inizio ha lo scopo di contrastare la forte inflazione che tiene in scacco la Cina. Curiosamente, agli stranieri è vietato possedere renminbi. La sola idea fa rabbrividire i dirigenti comunisti, così i pochi occidentali che entrano nel Paese usano dollari, naturalmente al mercato nero. Il divieto rimane in vigore fino al 1980, quando Mao è morto già da 4 anni. Ma in quello stesso 1980, la Cina ha ormai imboccato un’altra strada, quella tracciata da Deng Xiaoping verso l’economia di mercato. Ed entrano in circolazione i “Foreign Exchange Certificate” (fec). In pratica dei lenzuoli di carta – grafica diversa dai renminbi ma valore nominale identico – riservati agli stranieri. I fec, però, possono essere spesi solo in certi alberghi e in determinati negozi, i cosiddetti  “friendship stores”, che vendono prodotti ed elettrodomestici in arrivo dall’Europa, dagli Stati Uniti o dal Giappone. Tutto di altissima qualità, dunque, un sogno proibito però per i cinesi, che in questi negozi non possono entrare né tanto meno fare acquisti. Per loro, nel migliore del caso, la scelta è tra scadenti frigoriferi e lavatrici rigorosamente Made in China! Stranieri e cinesi, dunque, nel pieno della rivoluzione di Deng, vivono su due pianeti distinti, che si incrociano solo al mercato nero, dove i fec vanno a ruba (per averne 100 servono 130 rmb). Solo così i cinesi possono – furtivamente – entrare in possesso degli ultimi ritrovati della tecnologia occidentale. Viceversa, gli stranieri possono provare “l’ebbrezza” di entrare in un negozio di alimentari per cinesi. 

In questo contesto, che sembra da fantascienza, nel 1989, pochi mesi dopo la strage di piazza Tienanmen, sbarca in Cina Saro Capozzoli, uno dei primi imprenditori italiani a capire che il mondo stava già allora andando ad Oriente. Oggi dirige una nota azienda di consulenza strategica e di gestione di investimenti di private equity a Shanghai, con più di 100 dipendenti, che ben conosce, nei suoi mille rivoli, le dinamiche con cui si muove il continente cinese. “Ma circa vent’anni fa – racconta Capozzoli – di fronte all’ignoto arrivai a Pechino con 80 chili di valigie. Mi ero portato tutto dall’Italia, dalla pasta al dentifricio”. La previdenza di Capozzoli è giustificata. “Cambiai subito i miei dollari con i fec. Visto, però, che volevo anche vedere da vicino come facevano la spesa i cinesi, appena uscito dall’hotel feci il cambio vantaggioso dei fec in renminbi”. Appena entrato in uno di questi negozi per cinesi, ecco l’amara realtà: “La prima parola cinese che ho imparato fu ‘mei you’, ‘non c’è’. La gente girava per gli scaffali del supermercato, ma il più delle volte i prodotti erano solo in esposizione: gli inservienti avvertivano che questi erano solo campioni, non in vendita, perché non c’erano abbastanza prodotti. Infatti ricordo che le famiglie ricevevano come parte della retribuzione, degli assegnini con i quali potevano comprare latte, carne, riso, i beni di prima necessità”. Nessuno si preoccupava dei conti in rosso? “Per niente. I supermercati erano rudimentali e soprattutto a gestione statale: quindi, che vendessero o no era la stessa cosa per i dipendenti”. 

Tutto cambia in pochissimi anni. Nel 1996 viene aperto il primo Carrefour in Cina, a Shanghai, nel quartiere di Gubei, “un luogo che oggi è preso d’assalto da 25mila persone al giorno”. In realtà, la rivoluzione copernicana sotto il sole di Pechino si compie due anni prima. Il primo gennaio 1994, infatti, la separazione in stile apartheid tra fec e renminbi, stranieri ricchi e privilegiati contro cinesi poveri ed esclusi, viene abolita. Tutti possono e devono spendere i rmb mentre i negozi aprono le porte a tutti, cinesi e stranieri. “I fec divennero improvvisamente carta straccia – ricorda Capozzoli – Ho visto gente che ne aveva così tanti che, non potendoli più cambiare, si suicidò. E c’erano anche ragazze che si prostituivano pur di sbarazzarsi dei fec!”. E’ la riscossa del renminbi-yuan. La barzelletta, che girava negli anni 80 sui leader del partito comunista cinese in viaggio in Europa buttati fuori dai bordelli perché volevano pagare in renminbi, improvvisamente passa di moda. I cinesi (ancora pochi) che vanno all’estero, non devono più sperare in una trasferta di almeno 181 giorni (termine minimo necessario per poter cambiare i dollari risparmiati in fec da spendere nei negozi per stranieri!) 

Questa è la breve storia renminbi (yuan) fino alla metà degli anni 90. Da quel momento l’ascesa della Cina e della sua economia diventano incontenibili. Al punto che oggi i più lungimiranti governanti di Pechino vorrebbero vedere, in 10 anni, lo yuan circolare liberamente almeno nei Paesi asiatici a forte insediamento cinese (ad esempio l’Indonesia, dove i cinesi sono il 3% della popolazione ma controllano l’80% dell’economia). Quasi fosse una prova generale, in occasione delle Olimpiadi sono state coniate 6 milioni di banconote da 10 yuan con l’immagine dello Stadio Olimpico al posto di quella storica di Mao. Giusto per capire la reazione dei cinesi… 

Intanto, la Banca centrale cinese accantona, ogni giorno, circa 1 miliardo di dollari americani. Come fa? E’ ancora Saro Capozzoli a spiegare il meccanismo, virtuoso per le casse cinesi: “Immaginiamo un consumatore di Los Angeles che da Wall Mart spende 30 dollari per un rasoio Oral-b made in China. Circa 3 dollari finiscono in Cina alla trading company di chi ha prodotto il rasoio”. Il produttore, infatti, non può incassare direttamente questi dollari “ma attraverso il trader li riceve cambiati in renminbi, con cui pagherà gli operai, i contributi e le tasse. Il cambio avviene nella banca locale”. In questo modo la Cina immagazzina un miliardo di dollari al giorno. Ma come vengono reinvestiti? “In azioni americane, in euro e, per la maggior parte, in buoni del Tesoro di Washington”. Per non farsi mancare nulla, la Cina con questi dollari compra anche grandi aziende all’estero. “Fanno un vero e proprio shopping finanziario – conclude Capozzoli – come azienda abbiamo seguito alcune acquisizioni in Italia nel settore tessile e metalmeccanico, in genere quasi sempre aziende primarie, e con prevalenza nel settore delle alte tecnologie, materie prime, ecc”.

Dedicato a chi ha ancora dubbi su chi comanda oggi e soprattutto chi comanderà domani sul pianeta nel nostro XXI secolo.