Da quando “prevenire” la violenza è diventato incostituzionale?
21 Dicembre 2010
La tesi per cui la riforma universitaria va aspramente combattuta in quanto comporta una aziendalizzazione delle università è espressione di una concezione illiberale e retrograda dell’economia pubblica. La stessa tesi è stata affermata a suo tempo per la sanità: anche in questo caso si è sostenuto che le unità sanitarie non possono essere considerate aziende in quanto prestano un servizio pubblico. Ma la aziendalizzazione dei servizi pubblici serve per renderli efficienti ed efficaci. Al contrario di quel che sostengono coloro che “lottano” contro l’aziendalizzazione dei servizi pubblici, ciò permette a chi ne usufruisce di avere servizi paragonabili a quelli privati a cui non vuole o non può rivolgersi. E consente agli addetti ai servizi pubblici di essere trattati, nel loro lavoro, con criteri analoghi a quelli vigenti nel settore privato, anziché dipendere da raccomandazioni e scatti automatici di carriera.
Dunque una riforma universitaria con questi obbiettivi, va a vantaggio dei cittadini a minor reddito e di quelli che desiderano vivere in una società ove contano il proprio merito e la propria capacità di impegnarsi. E questo ragionamento va in parallelo con quello della aziendalizzazione dei contratti di lavoro, propugnata dall’amministratore delegato della Fiat per legare le retribuzioni alla produttività ed avversato dalla CGIL, che invece vuole il contratto nazionale eguale per tutti.
Una delle ragioni per cui la sinistra, almeno in Italia, è in crisi profonda è proprio questa: non riuscire a capire che “l’aziendalizzazione” genera una società migliore e più equa e che la riforma universitaria va in questa direzione perché –come dice il senatore Quagliariello- cerca di perseguire principi di concorrenza e di merito. Che poi la riforma Gelmini realizzi in pieno o anche l’60% questi obbiettivi non lo credo come non lo crede lui. Comunque essa costituisce un passo avanti in questa direzione.
Ma il punto centrale, con riguardo alle manifestazioni di protesta violente e distruttive che hanno avuto luogo negli ultimi giorni e che rischiano di ripetersi non è questo. Il fatto è che nel 1968 la rivolta degli studenti era portatrice di proposte di liberalizzazione e modernizzazione della scuola, assieme ad altre proposte giuste o sbagliate che fossero. Era basata su richieste e proposte, questa è basata su rifiuti e su atti di violenza non accompagnati da alcuna elaborazione intellettuale. Allora ci fu una deriva di lotta armata politica. Ora c’è una deriva al disordine per il disordine.
Non solo a Roma, ma in tutte le città di Italia questi manifestanti hanno dato luogo ad atti assurdi preordinati a creare disordine: gli studenti o sedicenti tali, hanno bloccato il traffico, in ore di punta, in incroci nevralgici, con apposite barriere di legno e di metallo, erigendosi a vigili del traffico per far deviare le automobili nei sensi vietati e farle passare con il rosso anziché il verde ed impedendo anche ai pedoni di fare i percorsi desiderati. Così accanto alla polizia, si sono dovuti mobilitare i vigili urbani. Ma ciò non è bastato a impedire che il disagio e la congestione del traffico. Non si può affermare che questo modo di “manifestare” è stato dovuto a infiltrati. Esso è stato programmato da coloro che hanno organizzato queste proteste “spontanee”. E c’è stata anche una deriva di violenza contro le cose e le persone, che non ha alcuna relazione con il tema in discussione in parlamento.
Il senatore Gasparri ha chiesto che ci siano misure preventive affinché non si ripetano gli episodi di violenza. Alla base di questa proposta ci sono motivazioni molto serie, di cui non ci si può sbarazzare con superficiali richiami alla Costituzione come ha fatto, con notevole arroganza, l’onorevole Finocchiaro. Occorrono misure preventive allo scopo di evitare che si ripetano gli incidenti che hanno caratterizzato gli ultimi scontri. Non ci si può limitare a chiedere ai futuri manifestanti di avere senso di responsabilità, tanto più quando, nello stesso tempo, si afferma che essi esprimono un profondo disagio sociale della condizione giovanile studentesca, mentre si è visto che una parte dei dimostranti non sono affatto studenti e che una parte notevole di loro sono “di buona famiglia”.
Nella manifestazione romana di martedì scorso un giovane poteva essere ucciso o essere leso per sempre al cervello. E l’aggressore è un altro giovane, che ha compiuto un atto gratuito di immotivata violenza. Basterebbe questo per indurre a riflettere, senza fare richiami affrettati alle norme costituzionali o al disagio giovanile studentesco. Si è trattato, in questi caso e in altri analoghi, spesso, di un “delitto della folla” per usare l’espressione del giurista e sociologo del diritto Scipio Sighele, la cui opera penetrante sulla folla delinquente pubblicata nel 1891, è stata riedita dall’editore Marsilio nel 1985. La tesi di base è che l’individuo nella esaltazione della psicosi collettiva compie atti che per sua inclinazione non avrebbe mai commesso. Ma la conseguenza, per le leggi vigenti, è che quando questi atti diventano delitti, vanno puniti. E il rischio è di dovere consegnare alle carceri dei giovani e dei giovanissimi che, in questo modo subiscono un turbamento etico e psicologico che li può marchiare negativamente nella vita successiva. Come ha osservato il sottosegretario al ministero dell’Interno Mantovano le decisioni dell’autorità giudiziaria sugli scontri di martedì scorso inducono a una riflessione di sistema. I giudici di Roma hanno convalidato gli arresti, e con ciò hanno riconosciuto la correttezza dell’operato delle forze di polizia e la responsabilità degli arrestati per i reati loro contestati. Dunque, a carico dei 23 fermati esistono i gravi indizi di colpevolezza’. Tuttavia “Rimettendoli in libertà, i giudici hanno negato l’esistenza delle esigenze cautelari. E’ noto che le esigenze cautelari rispondono a un duplice criterio di prevenzione: nel processo, il rischio di inquinamento della prova e il pericolo di fuga; fuori dal processo, il rischio di reiterazione dei reati. Per quest’ultimo aspetto, l’immediata liberazione degli arrestati crea un deficit di prevenzione”. E dire questo, dice Mantovano “ non significa invadere le autonome valutazioni della magistratura; ma porsi il problema di come evitare che gli scarcerati tornino a usare violenza alla prossima manifestazione, e che altri, prendendo spunto dal trattamento giudiziario permissivo, siano indotti a fare altrettanto”.
Una misura che può essere proposta, per risolvere il problema posto da Gasparri è quella di estendere- per l’ordine pubblico gli adattamenti del caso- a manifestazioni pericolose – il daspo , che è il divieto di ingresso alle manifestazioni sportive. La sua applicazione ha impedito l’ingresso negli stadi di centinaia di violenti. E quando si accerti che il daspo è stato violato, si possono usare misure cautelari rivolte a impedire la reiterazione del reato. Inoltre esso consente di bloccare i soggetti pericolosi, nel loro stesso interesse, e –ovviamente- nell’interesse dei cittadini, dei manifestanti con intenzioni pacifiche e del contribuente cui spetta di pagare i costi dei vandalismi.
Prevenire, dunque, in questo caso, non è politica del diritto di natura repressiva, nei riguardi dei giovani, ma politica protettiva. E in generale la politica del diritto dovrebbe preferire la prevenzione alla punizione, la precauzione alla lesione.
Si tratta, d’altro canto, di tenere presente, in questo, come in ogni altri caso, nella lettura delle norme del sistema giuridico e, a maggior ragione, di quelle di rango costituzionale, che i diritti degli uni sono delimitati dai diritti degli altri. E ciò vale, in primo luogo, per i diritti di libertà e integrità personale. Il diritto di un giovane maggiorenne o di un giovane minorenne a non subire limitazioni alla propria libertà di manifestare va posto in rapporto a quello dei cittadini, che risiedono o lavorano o transitano per una data zona a non essere lesi nella loro libertà e incolumità personale, da una folla di dimostranti che si azzuffa con le forze dell’ordine e al proprio interno, che brucia automobili e motocicli, spacca vetrine e cassonetti, imbratta i muri e riempie le strade di rottami e detriti. E quel diritto a dimostrare liberamente va posto in relazione con il diritto di proprietà di chi possiede delle auto e dei motocicli, che non sono, mediamente, ricchi signori. Ed ancora, quel diritto a dimostrare liberalmente va posto in relazione a quello dei proprietari degli immobili e degli esercizi commerciali a non essere danneggiati nei loro beni.
Non c’è poi bisogno di richiamarsi a Pier Paolo Pasolini per osservare che anche i poliziotti, che sono generalmente di modesta estrazione sociale e hanno modeste retribuzioni, per un lavoro duro rischioso, hanno diritto a non dover subire la violenza di studenti e presunti tali che instaurano manifestazioni contro il parlamento. Coloro che hanno criticato Gasparri, nel PD, nell’Italia dei valori, nell’UDC e in ambienti di intellettuali colti mi pare non si siano posti questo problema:la protesta che ora gli studenti hanno svolto e quella che svolgeranno non hanno lo scopo di promuovere un dibattito, ma quello di premere sul parlamento, per influenzarne il voto finale. Lo scopo di intimidirlo, con il vociferare della piazza. I giovani che fanno ciò non capiscono che, in democrazia non si può contrapporre la piazza al voto del parlamento. Ma quel che è peggio sembrano non averlo compreso molti politici che siedono nelle assemblee rappresentative democratiche. Il parlamento è una assise di persone che rappresentano il popolo che le ha votate. Queste persone pertanto hanno il diritto e il dovere di deliberare le leggi interrogando la propria coscienza e la propria ragione, senza essere distolte da tale compito dal vociferare di della piazza, che non esprime la volontà democratica, ma una sua caricatura.