D’Alema vuole il trionfo di Hamas

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D’Alema vuole il trionfo di Hamas

D’Alema vuole il trionfo di Hamas

11 Luglio 2007

Clamorosa gaffe di Massimo D’Alema che con una mossa
sola è riuscito a fare irritare oltre ogni misura Javier Solana, a aprire
l’ennesimo contenzioso col governo di Gerusalemme e a oscurare l’eco della
visita di Romano Prodi in Israele.

Lunedì, Repubblica e pochi altri giornali europei
hanno pubblicato il testo di una “lettera a Tony Blair” assolutamente
stravagante per la forma e il contenuto. Il documento – esplosivo nelle sue
linee guida, tanto che dichiara “morta la Road
Map” – portava solo la firma di 10 ministri degli Esteri su
25 e per di più, oltre a Italia Francia e Spagna, di assoluta irrilevanza:
Slovenia, Grecia, Cipro, Malta, Bulgaria, Romania e Portogallo.

Martedì, un Javier Solana più che infastidito ha
bacchettato le dita ai firmatari che hanno palesemente violato, su un argomento
rovente e in un momento cruciale, le più elementari regole della concertazione
di politica estera il cui custode è, appunto, lo stesso Solana: “Ricorda la ‘lettera
degli otto’ (il documento dei paesi europei, che si schierarono con gli Usa a
favore della guerra in Iraq, provocando una spaccatura esiziale per l’Europa
politica) e le sue conseguenze, eppure avrebbero dovuto imparare la lezione di
allora. Credo che ci siano meccanismi molto più utili, migliori ed efficaci per
esporre le idee di ciascuno”. Dunque la mossa dei dieci – e di D’Alema – è
stata giudicata da Solana inutile, mediocre e inefficace.

Il disastro è stato poi maldestramente ampliato da
D’Alema che si è trovato nella difficile posizione di dover coprire il suo
sottosegretario Famiano Crucianelli, che era presente nella riunione di Porto
Rose in cui la “lettera a Tony Blair” è stata decisa, e soprattutto se stesso.
Il titolare della Farnesina ha ammesso di avere firmato un documento pur
essendo assente dalla riunione, ma di “avere visto il testo che mi è sembrato
convincente, quindi l’ho firmato”. Insomma, la confessione in chiaro di una
decisione “per sentito dire”, con quel “mi è sembrato convincente” che la dice
lunga sulla superficialità con cui ha preso la decisione. Il classico “tocòn
pegior del buso”, una toppa peggiore dello strappo, il tutto peggiorato ancora
dalla maldestra difesa di un Piero Fassino che palesemente non ha neanche letto
la lettera dei dieci e che comunque – contro Abu Mazen – sostiene che Israele
deve fare la pace con Hamas, anche se questa si rifiuta di riconoscerne
l’esistenza. La prova che l’antisionismo di D’Alema è contagioso e corrompe
persino un ex sincero amico di Israele quale era il segretario dei Ds che dice
giustamente che la pace “si fa col nemico”, ma ora – non ieri, prima di questo
sciagurata esperienza di governo – fa finta di non capire che Hamas non è solo
un nemico, ma un dichiarato disintegratore del sionismo, che non vuole – e lo
dice – firmare nessuna pace, ma solo una tregua, una hudna, che le permetta poi
di meglio distruggere Israele.

Il problema della lettera a Tony Blair, infatti, è non
solo nella forma, ma anche e soprattutto nella sostanza. Il documento non si
limita a dichiarare morta quella Road Map che invece, a ogni livello, continua
a essere l’unica – assolutamente l’unica – strategia unitaria di Ue, Onu, Usa e
Russia (quindi sconfessa ogni atto di Solana) ma propone addirittura a Tony
Blair l’inaudita scelta di abbandonare le precondizioni sinora poste ai
palestinesi, di fatto accusandole di essere concausa dell’inasprimento della
crisi per avere “isolato Hamas”. Nella lettera si denunciano le “condizioni
troppo rigide che avevamo l’abitudine di imporre come preliminari”, e
conseguentemente si propongono “negoziati senza preliminari sullo statuto
finale”. Tradotto dal diplomatichese, i “dieci” abbracciano totalmente le
posizioni di Hamas e non chiedono più ai palestinesi la sospensione delle
attività terroristiche, il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere e
il rispetto degli accordi sottoscritti dall’Anp, le precondizioni, appunto.  I “dieci”, insomma, offrono a Ismail Haniyeh
la possibilità di ricomporre la frattura con Abu Mazen – loro dichiarato obiettivo
precipuo – a scapito della sicurezza di Israele, proprio a partire dal suo
trionfo strategico: una trattativa sullo Stato palestinese, continuando le
attività terroristiche e rifiutandosi di riconoscere Israele. Una piattaforma
che premia le più fondamentaliste e terroriste pratiche palestinesi – quindi
addirittura offensiva per Israele- controbilanciata da una proposta
inaccettabile: “prendere in considerazione il bisogno di sicurezza di Israele”.
Una frase volutamente confusa e contorta che sostituisce la secca “difesa della
sicurezza di Israele” sin qui contemplata dal Quartetto e dovrebbe
concretizzare “l’idea di una forza internazionale robusta del tipo Nato o Onu
capitolo VII che avrebbe ogni legittimità ad assicurare l’ordine nei territori
e a imporre il rispetto di un necessario cessate il fuoco”.

Nel momento stesso in cui il fallimento dell’Unifil in
Libano è ormai acclarato, mentre Abu Mazen chiede sì un corpo militare internazionale,
ma per combattere Hamas a Gaza, non per controllare Israele, D’Alema e gli
altri nove propongono di impedire all’esercito israeliano le azioni di
contrasto antiterrorismo nei territori palestinesi e di delegarlo ad una forza
multinazionale che ovviamente, anche se armata delle migliori intenzioni, nulla
potrebbe fare contro le iniziative terroristiche palestinesi e avrebbe quindi
solo il compito di impedire le contro-azioni israeliane. Il tutto, mentre
Romano Prodi nella sua visita a Gerusalemme ha sensibilmente modificato l’assetto
nella crisi imposto all’Italia da D’Alema, ha sposato con inedita energia – almeno
verbale – le posizioni di Ehud Olmert sull’Iran e ha pienamente appoggiato
quell’Abu Mazen che continua a dichiarare di voler trattare solo con le armi con
Hamas – supinamente corteggiata dalla lettera dei “dieci” – accusandola
addirittura di favorire l’infiltrazione di al Qaida a Gaza.

Una posizione molto alla Zelig – Prodi cambia
posizione a seconda dell’interlocutore e ai suoi amici iraniani ha sempre detto
cose ben diverse da quelle che ha detto a Olmert sul programma nucleare degli
ayatollah – ma comunque passabile. Una posizione che comunque D’Alema ha subito
corretto, sostenendo il giorno dopo -incredibilmente – che “l’Iran sta aprendo
a qualche opportunità”. Un pastrocchio infilato in una serie di pastrocchi,
l’ennesima prova di un esecutivo con un’andatura da ubriachi, con un ministro
degli Esteri che firma documenti esplosivi che neanche legge e che pensa – al
solito – di cavarsela comunque con l’eterno gioco delle tre carte, sia pure in
versione sovietica.