Dalle foibe al Vajont, Carlo Sgorlon è la “penna d’oro” dell’anticonformismo
03 Maggio 2009
La sua produzione letteraria è sconfinata, eppure non entra nella maggior parte delle grandi storie della letteratura italiana e i suoi libri sono spesso introvabili. Ha vinto una quantità incredibile di premi, dallo Strega al Supercampiello, dal Flaiano al Nonino, eppure non è mai stato uno scrittore da classifica o da parterre televisivo. E’ sempre andato nell’esatta direzione opposta a quella del fiume sedicente modernista, eppure non è mai stato un capopopolo. Carlo Sgorlon, friulano viscerale, nato a Cassacco in provincia di Udine nel 1930, non è uno scrittore come tanti. E la sua unicità ne ha fatto un animale da parco protetto.
I germi dello scandalo sono presenti nelle sue scelte di vita e nella sua condotta poetica. Nelle quali l’“amata solitudine, isola benedetta”, cantata da Franco Battiato, diventa l’unico tratto distintivo, il pane lievitato di un’intera esistenza. La solitudine nella quale Sgorlon si è rifugiato e ha trovato riparo, e nella quale è stato ricacciato come demone innaturale dall’intellighenzia progressista dominante. Lui che la Natura ha cantato come dea e supremo elemento primordiale, angolo abitativo, tomba del futuro. E d’altronde non poteva essere che così, nel corpo libero delle arti e dell’intelletto che sbriciola e confina chi non si omologa. Perché stupirsene?
Al mondo multikulti che ha fatto della globalizzazione prima una speranza poi un’ideologia, Sgorlon ha voltato la faccia scegliendo di radicarsi nell’asprezza delle patrie valli friulane. All’intellettualismo radical-chic che ha imposto il progresso e l’industrializzazione come uniche forme di salvezza, ha preferito la conservazione dell’Essere e la bellezza della natura, tanto da essere definito “scrittore ecologico”. Alla società liquida e osmotica, in cui tutto tende a confondersi, ha risposto con la ricerca del sacro, la religiosità, l’identità e gli archetipi, veri pilastri della sua narrazione, perché “l’uomo moderno, perduto nel caos e nel disordine della realtà, privo di modelli e di valori”, deve, “per ritrovare i propri orizzonti e le proprie mete, riappropriarsi di quelle bussole misteriose dell’inconscio che sono i miti e gli archetipi”.
La penna d’oro, appena uscito per Morganti, casa editrice trevigiana che ha recentemente inaugurato una collana dedicata a un altro grande per lungo tempo dimenticato, Gilbert K. Chesterton, è la sua summa poetica. E anche stavolta Sgorlon colpisce nel segno, fondendo tre distinti filoni narrativi, l’autobiografia, il racconto e il pamphlet, e padroneggiando, al solito, una lingua piana e affascinante, ricca di suggestioni.
L’infanzia sulle colline moreniche, tra Cassacco, Tricesimo, Montegnacco, la vita con i nonni materni, gli studi in un collegio triestino, in compagnia di “rampolli di famiglie agiate, ma devastate da separazioni, adulteri e amanti”, la passione per le lettere, i tempi della Normale di Pisa e della specializzazione in Germania, pervasi dalla consapevolezza “che per me vivere era più difficile che per gli altri, perché ero un potenziale scrittore, nato più per osservare e raccontare la vita che per aderirvi con immediatezza”, il ritorno nell’amato Friuli, a quel focolare contadino del quale “sentivo la pienezza, ma anche le celate malinconie”, che però non ha mai mostrato di riconoscerlo e di ricambiarlo.
I percorsi letterari e le grandi svolte epiche, di cui Sgorlon traccia le origini e gli sviluppi. Accenti magici e fiabeschi, saga e realtà, in cui si mescolano situazioni e personaggi nella ricerca dell’identità perduta, nel tentativo di riconsacrare il mondo, nella tensione a riscoprire il passato e le sue falsità: da Il trono di legno, capolavoro assoluto del 1973, a Armata dei fiumi perduti, da L’ultima valle, primo romanzo sulla tragedia del Vajont, a La foiba grande, primo romanzo su “una delle cause perse della storia italiana”, fino a L’uomo di Praga e Le sorelle boreali.
Infine le adesioni intellettuali e – si parva licet – politiche. Senza sconti, a nessuno. Boccia i “mostri sacri” del conformismo sinistrese, Gadda, Calvino, Pasolini, Sciascia, innalza “compagni di solitudine” come Buzzati, Kafka, Zolla, Garcìa Marquez; aborre lo storicismo, condanna divorzio e aborto, agenti corrosivi delle certezze della società moderna, accusa il Sessantotto “che contribuì a dissestare la scuola, a distruggere il carisma delle autorità e di tutte le istituzioni, a trasformare l’etica in edonismo, a pretendere di creare una società livellata”, critica la tracotanza umana, il progresso e la volontà di imporlo come giusto, perché “più gli uomini progrediscono, più si allontanano dalla natura, più la loro infelicità cresce, ed aumentano i danni e le ferite inferte alla terra”. Naturale che di sconti non ne abbiano fatti neppure a lui.
Fiume carsico in piena, Carlo Sgorlon. Che appartiene solo a se stesso e alla sua patria, il Friuli. Non sarà un intellettuale da salotto né un partigiano della politica, e la sua cultura non sarà quella dominante. Ma siamo sicuri che, a parte qualche sbuffo, non gliene importi granchè. A noi va certamente meglio così.