Dalle nomine in Rai ai terremoti, allo sciopero: così certi pm fanno politica

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Dalle nomine in Rai ai terremoti, allo sciopero: così certi pm fanno politica

Dalle nomine in Rai ai terremoti, allo sciopero: così certi pm fanno politica

08 Giugno 2010

La giustizia come amministrazione di un servizio per i cittadini o la giustizia come esercizio di un potere autoreferenziale quando non addirittura supplente o sostitutivo di altri poteri. Sul filo di questa dicotomia di fondo si gioca ogni discorso sul tema giudiziario, sia che riguardi altisonanti riforme, sia che investa più prosaicamente gli stipendi e le progressioni di carriera.

Ed è lungo il medesimo crinale che si consuma il confronto a distanza tra due approcci antitetici alla professione del magistrato: quello di chi si arrocca nel proprio fortino corporativo, osteggia a priori con rancore e vittimismo qualsiasi tentativo di rinnovamento, è restio a prendere le distanze da quella minoranza rumorosa di toghe che interpretano la giustizia come una forma impropria di attività politica, e dall’alto dell’autorità morale di cui si sente investito stenta a riconoscere i confini con i quali quella legge a cui sola è soggetto delimita la sua attività; e quello di chi, di converso, a fondamento di ogni rivendicazione pone l’autocritica e la messa in discussione della propria categoria, a corollario di ogni problema formula una proposta di soluzione, e nell’applicazione della legge al servizio del cittadino individua il fine ultimo della propria missione.

Nei giorni scorsi la concomitanza casuale di diversi avvenimenti ha messo in evidenza quasi "plasticamente" l’abisso che separa le due diverse concezioni. Da una parte la proclamazione di uno sciopero da parte dell’Associazione nazionale magistrati che, sola sigla assieme alla Cgil, appare indisponibile a condividere col resto del Paese, e anche con categorie sociali economicamente assai più disagiate dei magistrati, i sacrifici imposti dalla crisi internazionale. Dall’altra lo scatto di orgoglio di chi, come il Procuratore di Bari Antonio Laudati, a fronte delle ristrettezze del momento e di un più complessivo deficit di efficienza che opprime il sistema giudiziario italiano, ha posto sul tavolo della discussione idee e proposte per reinvestire tempestivamente nell’organizzazione della giustizia parte di quei capitali che l’autorità giudiziaria quotidianamente sottrae in particolare al crimine organizzato.

Da una parte un sindacato delle toghe che sorprendentemente si schiera a fianco del sindacato dei giornalisti per contrastare un disegno di legge che si propone di assicurare la necessaria riservatezza alle indagini preliminari condotte dall’autorità giudiziaria. Dall’altra una Procura della Repubblica, quella di Bari, che in poco tempo ha dimostrato che indagare sulle fughe di notizie e sulle violazioni del segreto d’indagine si può, basta volerlo.

Da una parte, infine, una Procura di Bari che sul tavolo della "trattativa" con chi ha l’onere di assegnare e distribuire le risorse economiche dello Stato pone i proventi assicurati allo Stato stesso grazie alla lotta quotidiana contro la criminalità. Dall’altra il tentativo, non si sa quanto consapevole, di affermare la propria supremazia sociale trasferendo nelle aule dei tribunali dinamiche e istanze che in una democrazia sana dovrebbero appartenere ad altri ambiti: alla scienza, al mercato, alla libera contrattazione tra individui e imprese.

Dopo essersi arrogati il diritto di stabilire le nomine in Rai – il caso Ruffini è a tal proposito emblematico – sembra ora che alcuni magistrati siano intenzionati a risolvere a suon di codice penale e accuse di omicidio colposo l’annosa diatriba scientifica sull’imprevedibilità dei terremoti. Sarebbe surreale, se non fosse tragicamente vero e, in fondo, una metafora della impotente onnipotenza che porta alcuni magistrati a dimenticare il servizio che debbono ai cittadini.