Dallo scontro Fiom-Fiat escono con le ossa rotte Cgil, Confindustria e il Pd
30 Dicembre 2010
Nell’hannus horribilis della politica italiana, tutto giocato sul gossip e sull’intrigo di Palazzo, le uniche buone notizie arrivano dal mondo dell’impresa e del lavoro. L’accordo sottoscritto dalla Fiat e dai sindacati dei metalmeccanici (FIOM esclusa) contiene infatti importanti novità. Novità importanti in quanto tali ed importanti perché evidenziano come forse per l’Italia non sia tutto perduto, come il Bel Paese abbia ancora energie e coraggio sufficienti per accettare di correre la sfida della modernità e dell’innovazione.
Certo lo spettacolo che sta andando in scena in questi giorni non è edificante. Sembra la riedizione dello scontro atavico fra massimalisti e riformisti che viviamo dal 1921, data della scissione di Livorno dalla quale nacque il Partito Comunista Italiano. Scontro che ha caratterizzato anche la vita sindacale con la componente più conservatrice che resiste a difesa di prerogative privilegi, che in nome della tutela dei diritti inviolabili dell’uomo si oppone a corpo morto ad ogni innovazione, che perde sistematicamente ogni appuntamento con la Storia (ricordate il decreto di San Valentino del 1984 che ha salvato l’Italia dalla bancarotta ed il conseguente referendum sulla scala mobile perso ignominiosamente?).
Certo la vicenda di oggi ha contorni ancora più surreali. Siamo nel pieno di una grave crisi economica mondiale, dobbiamo fronteggiare drammatici problemi occupazionali (soprattutto al Sud e fra i giovani), abbiamo un sistema economico che perde sistematicamente punti di competitività nei confronti internazionali, ormai da anni nessun investitore, italiano o straniero che sia, decide di puntare sull’Italia investendo somme cospicue per dar vita a nuove produzioni industriali o per far crescere quelle esistenti.
Ebbene in un contesto deprimente del genere, abbiamo la principale impresa nazionale, che uscendo dallo stato letargico che l’aveva caratterizzata per decenni decide di investire somme consistenti in Italia, anche nel Mezzogiorno, all’interno di una strategia di impresa globale ed internazionale e decide anche di riconoscere un significativo beneficio economico a fronte di precise misure di aumento della produttività (aumento dei turni straordinari, lotta all’assenteismo ed agli scioperi selvaggi). Ebbene di fronte a tutto ciò quale è la reazione del sindacalismo antagonista e dei cantori dei diritti universali? Urla e strepiti, scioperi generali accuse di fascismo e non so cos’altro. Ci fosse in giro qualche brigatista in servizio permanente effettivo sarebbero prevedibili anche gli esiti più tragici e dolorosi.
Ma comunque vada a finire, lo scontro Fiat – FIOM lascerà conseguenze profonde nel nostro sistema di relazioni industriali e nel nostro sistema politico. Alcuni dei protagonisti della vicenda ne escono infatti malconci. Quello messo peggio di tutti è naturalmente la FIOM che, dopo aver perso il referendum fra i lavoratori, ha comunque deciso di non firmare e di arroccarsi in una posizione di sterile contrapposizione ideologica. E male ne esce anche la casa madre della FIOM, la CGIL, che evidentemente vorrebbe essere più dialogante ma non riesce in alcun modo a contenere il radicalismo della propria componente metalmeccanica ed è costretta ad andare al traino di Cremaschi & co.
Sul lato opposto del tavolo negoziale ne esce ammaccata anche la Confindustria. Se la Fiat, la più grande impresa del Paese, per realizzare un proprio disegno strategico è costretta ad uscire dall’associazione di categoria delle imprese è evidente che tale associazione non è più in grado di tutelare gli interessi dei propri associati. E se non lo è nei confronti di FIAT come potrà esserlo nei confronti delle migliaia e migliaia di piccole e medie imprese senza voce?
Il fatto è che CGIL e Confindustria sono creature cresciute soprattutto grazie al moloch del contratto collettivo nazionale di lavoro che per cinquant’anni è stata la pietra angolare del nostro sistema economico produttivo. Un moloch che ha determinato un grado di centralizzazione e di burocratizzazione delle nostre relazioni industriali sconosciuto nelle altre parti del mondo (e non solo degli odiati Stati Uniti). Una centralizzazione che era forse compatibile con un modello di produzione industriale di tipo fordista e con un mercato protetto ma che è diventato del tutto incompatibile con un economica globalizzata e post-industriale.
Sul piano strettamente politico, il costo maggiore lo paga il Partito Democratico. Basti pensare allo spettacolo un pò comico di questi giorni dove il PD si spacca fra chi dichiara che se fosse un lavoratore FIAT voterebbe a favore dell’accordo e chi grida all’attentato alle libertà costituzionali ed aderisce ad improbabili associazioni di reduci dediti alla difesa del lavoro e della libertà. Per non parlare poi dell’allegra compagnia di giro degli alleati attuali (da Vendola a Di Pietro) o potenziali (da Casini a Rutelli a Fini). Perché, se un tema del genere non si riesce a produrre uno straccio di posizione condivisa, è arduo immaginare che ci si possa credibilmente candidare a governare un Paese.
Ma soprattutto le difficoltà e le divisioni democratiche rappresentano la pietra tombale sulla vocazione maggioritaria e sulla convinzione riformista e liberalizzatrice del Partito. Dalle reminiscenze kennediane (o obamiane) di Walter Veltroni alle lenzuolate liberalizzatrici di Bersani il PD si è affannato in questi anni per trasmettere l’idea di un partito profondamente cambiato rispetto alla storia della sinistra (comunista) italiana. Si è permesso addirittura il lusso di attaccare il centro destra e Berlusconi per la debolezza del suo afflato liberalizzatore (in effetti sicuramente al di sotto delle nostre aspettative). Ma questo è un terreno decisivo per verificare l’autenticità di tali velleità liberali.
Il vero gap in termini di competitività del nostro Paese, il vero fardello in termini di libertà economica è rappresentato dal combinato disposto di tre fattori: un fisco esoso, una pubblica amministrazione pletorica ed inefficiente ed un mercato del lavoro ed un sistema di relazioni industriali arcaico. Sono questi i nodi da aggredire se si vuole davvero liberare l’economia e rilanciare l’Italia.
Baloccarsi con i farmaci da banco nei supermercati, con i taxi o con i notai, potrà forse servire a guadagnare qualche titolo sui giornali. Potrà forse servire a consumare una vendetta politica nei confronti di ceti sociali poco inclini a votare a sinistra. Potrà avere un positivo valore simbolico, ma certo non fa fare molta strada all’Italia.