“Davide” è il capolavoro di Carlo Coccioli, inquieto scrittore cattolico
05 Luglio 2009
Interrogarsi sul senso dell’esistenza è interrogarsi su Dio. E’ approssimarsi all’Eterno nell’eterna tensione tridimensionale dei primordi umani: corpo anima, mente. Forza, sentimento, ragione: uno slancio senza approdo per capire la propria essenza, che è identità e vita.
Davide, il capolavoro di Carlo Coccioli, è un’invocazione crescente e una richiesta d’aiuto al cielo fin dall’“Ascolta” che ne avvia la parabola. Pubblicato nel 1976, a lungo introvabile a causa delle logiche del commercio e del marketing, nonché dell’ottusità della nostra casta intellettual-benpensante, il romanzo è ora stato meritoriamente ristampato dall’editore Sironi di Milano, grazie alla cura di Giulio Mozzi, che promette di ridare presto vita a tutta l’opera dello scrittore livornese, morto nel 2003 all’età di 83 anni.
Ma chi è Davide, il re d’Israele? Davide è l’unto dal Signore, il prescelto, il portatore di una storia e di una tradizione, seminatore di un futuro increato, su cui Dio ha voluto fondare la Santa Alleanza e costruire la propria potenza, l’Io che dà del Tu all’Eterno, l’ama, lo teme, l’innalza, lo delude. Davide sono io. Davide è ciascuno di noi.
Libro potente, come si confà solo ai re e alla divinità, il racconto scorre magmatico, in piena, grazie a un linguaggio lavico, quasi incendiario, pur nella fedeltà agli avvenimenti del testo biblico, sempre aulico e teso fino all’ultimo passo, l’estrema invocazione del re sul letto di morte.
Coccioli costruisce un romanzo dell’Io, in cui entrano tutti gli elementi della natura umana: l’amore e il sesso, la paura della morte e la sfrontatezza di fronte alla vita, la guerra e la pervicacia delle passioni che consumano la carne e lo spirito, la ricerca di Dio e l’incessante domanda di senso allo scorrere del tempo…
L’Io della storia è dunque Davide, figlio d’Isai, che l’Onnipotente ha scelto ultimo tra gli ultimi come successore di Saul sul trono d’Israele, e che si confessa narrando se stesso in attesa degli eventi supremi. A lui viene chiesto non di fare ciò che è giusto o sbagliato, ma di adempiere alla volontà del Padre, che tutto scruta, tutto e solo conosce, di realizzare l’immenso disegno che è dei cieli e nei cieli. Insomma, di essere santo.
Anche se questo dovesse portare sofferenze: agli amati, come Saul, che sul crinale della vita scorgerà la fine senza essere in grado di vederne il senso e percepirà in Davide l’avversario pronto a strappargli trono e onori; come i popoli delle tribù israelitiche, che per l’unità della terra promessa sopporteranno le pene della mano possente che li scanna e li schiaccia sotto il giogo del disegno divino; come le molte mogli, pedine ignare di un destino impercettibile, che dovranno lasciare il passo a Betsabea, generatrice di Salomone e della stirpe che succederà proprio a Davide; come Assalonne, figlio prediletto e ribelle, che dovrà essere ucciso per salvare il Regno.
L’Io carnale è Coccioli stesso, che cosparge di cenni autobiografici il suo canto epico, in cui il racconto della passione sensuale di Davide per il figlio di Saul, Gionata, si mescola all’amore ardente e contraddittorio per il Dio vivente.
Omosessuale e cattolico, Coccioli aveva già dichiarato se stesso ne Il cielo e la terra (1950) e – dopo la tappa intermedia del Davide – soprattutto nello “scandaloso” Fabrizio Lupo (1978), che gli valse critiche e contumelie. Scrittore eccelso e poliglotta, trovò in Messico lo sfogo a un esilio cui lo aveva costretto l’Italia, che non l’aveva capito e in cui lui aveva inoculato il germe acido di rottura degli schemi borghesi.
Si era innamorato dell’Oriente, che lo aveva penetrato con la forza dei suoi miti e la saggezza dei suoi popoli, interessandosi a ogni filosofia o religione che potesse condurlo a una piena cognizione di sé e dell’uomo, induismo, buddismo, ebraismo, in cerca dell’Essere supremo e della Verità nascosta. Perché in fondo, come ebbe a dire, “c’è forse altro di cui parlare?”.
E l’Io mistico, infine, è ciascuno di noi, colto nella propria identificazione col prescelto. Perché ciascuno, ignaro o consapevole, è un eletto del Padre. Perché la chiamata alla santità non è un evento straordinario, ma un continuo rinnovarsi nel quotidiano, al quale l’uomo può rispondere liberamente, aprendosi o negandosi. E’ realizzare l’unicità del disegno cui soli siamo destinati.
In fondo, “la santità umana non è che lo sforzo dell’uomo per ristabilire l’armonia originale: rinnovare l’unione tra Infinito-Assoluto e Divina-Presenza…”. Attraverso lo smarrimento nella misericordia celeste, in quel Deus qui caritas est, perché proprio l’Amore è “forse l’unica parola umana con cui si può avvicinarTi…”.
Sta tutto qui il senso della modernità coccioliana, e il valore del suo scandalo esistenziale. Inneggiare alla vita e perdersi irrimediabilmente nell’Uno Eterno in un tempo in cui – che somiglianze tra l’ideologia post-sessantottina e l’odierno nichilismo individualista! – l’uomo non ha timore di calpestare il Sacro riducendolo a semplice tabernacolo per reazionari, e di porsi non al cospetto, ma di fronte all’Onnipotente, sfidandolo e dichiarandosene autonomo, è probabilmente quanto di più rivoluzionario e scabroso si possa pensare, e dire. Scandalo per i benpensanti, epifania per i cercatori di verità.