De Magistris “caudillo” di una Napoli vittimista e in declino
14 Giugno 2016
Il primo turno delle elezioni comunali ha visto emergere ancora con evidenza, tra le crescenti difficoltà del Pd renziano e lo smarrimento strategico di ciò che rimane del centrodestra post-berlusconiano, spinte populiste ed antipolitiche, incarnate ancora soprattutto (si vedano i casi di Roma o Torino) da candidati del Movimento 5 Stelle.
Ma nella radicalizzazione protestataria a livello municipale spicca un caso del tutto particolare: quello del sindaco uscente di Napoli Luigi de Magistris, nettamente vincente al primo turno con il 42% dei suffragi (rispetto al crollo clamoroso della candidata Pd Valeria Valente) e decisamente in vantaggio sul candidato “civico” appoggiato da una parte del centrodestra, l’imprenditore Gianni Lettieri.
De Magistris, infatti, è l’espressione di un movimentismo totalmente personalizzato, non legato al fenomeno grillino ma con esso concorrente (anche se a Napoli tende a vampirizzarne ampiamente i consensi). Affermatosi sull’onda di un giustizialismo d’assalto sposato a proclami “benecomunistici”, l’ex magistrato è riuscito a mantenere complessivamente alto il grado di fiducia degli elettori napoletani dopo cinque anni di sindacatura, pur molto travagliati e segnati da profondi cambiamenti nella maggioranza consiliare e nella giunta.
La persistenza di tale fiducia appare però come un vero e proprio paradosso, se solo si traccia un bilancio complessivo dell’amministrazione demagistrisiana. Da qualsiasi punto di vista la sia guardi, infatti, essa è stata segnata da una serie impressionante di insuccessi, tanto più evidenti ed imbarazzanti se confrontati con le roboanti dichiarazioni e i propositi “rivoluzionari” del primo cittadino.
Per quanto riguarda il problema che aveva rappresentato il principale cavallo di battaglia della propaganda di De Magistris – quello della gestione dei rifiuti – i risultati sono stati pressoché nulli. La raccolta differenziata, che il sindaco aveva promesso di portare al 70%, si è attestata ad uno striminzito 22% (20 punti al di sotto della media nazionale del 45,2%). Nessun passo avanti è stato fatto per costruire impianti che possano condurre finalmente a regime un ciclo virtuoso dello smaltimento.
E soprattutto l’immondizia è stata tolta dalle strade (con grandi vanti da parte dell’amministrazione), ma così come si nasconde la spazzatura sotto il tappeto: esportandola a pagamento all’estero, e facendone pagare i costi ai cittadini napoletani, su cui grava attualmente l’altissima aliquota TASI del 3,3 per mille (a Milano è il 2,5%, a Roma lo 0,8%, tanto per dare un’idea).
In merito poi alle gravissime e già pregresse condizioni debitorie del Comune, de Magistris ha solo peggiorato la soluzione, nonostante i cospicui prestiti ammortizzati ricevuti grazie alla legge anti-dissesto per i Comuni varata dal governo Monti nel 2012. Egli si è mostrato infatti del tutto incapace di accrescere la risibile capacità di riscossione delle imposte comunali, o di recuperare fondi attraverso la vendita e/o la valorizzazione dell’ingente patrimonio immobiliare comunale.
Così, il debito del capoluogo campano ha superato nel 2013 il miliardo di euro, tanto che la Corte dei Conti ha costretto l’amministrazione ad un severo piano di rientro. L’inevitabile conseguenza del quale, vista l’assenza di altre entrate o di cospicui tagli di spesa, è stata che (secondo dati “Openpolis” riportati dal quotidiano “Il Mattino”) dal 2010 al 2016 la pressione fiscale per tributi locali sui cittadini napoletani è aumentata del 138%, mentre il reddito pro capite è diminuito per la crisi economica, e il tasso di disoccupazione si è attestato dalle ultime rilevazioni al 22,1%, contro il 15,6% del 2010.
Della vivibilità urbana, della condizione delle strade, del livello dei trasporti pubblici, confrontato a quello delle altre grandi città italiane (persino le più problematiche come Roma), meglio non parlare: il pessimo stato di manutenzione della città di Napoli è sotto gli occhi di chiunque vi risieda o la visiti. Per contro, il Comune è stato capace di perdere più di 100 milioni di fondi destinati dall’Unesco al recupero del centro storico. Mentre circa 10 milioni di euro sono stati dilapidati dall’amministrazione per finanziare le eliminatorie della coppa America di vela del 2012, evento effimero di nessuna utilità pubblica.
Last but not least, l’amministrazione si è schierata decisamente contro ogni piano del governo per sbloccare finalmente, dopo 25 anni, la paralisi di Bagnoli e riavviare lo sviluppo nella zona occidentale della città , preferendo aizzare la piazza all’ostruzionismo in nome del “no” a qualsiasi profitto economico nella ricostruzione di quell’area. La sicurezza dei cittadini, infine, si è ulteriormente deteriorata, mentre la criminalità non solo non sembra in calo, ma aumenta la sua presa: nei 5 anni di giunta de Magistris gli omicidi sono cresciuti del 4,5%, e scippi e rapine addirittura del 64,5%.
Come si spiega allora, alla luce di un consuntivo così disastroso, il netto successo di de Magistris al primo turno elettorale?
Qualcuno cita come elemento a favore del sindaco uscente il fatto che il flusso dei turisti in città è aumentato (secondo i dati forniti dal “Mattino”, del 34% in 4 anni), come se ciò dipendesse da politiche messe in atto dall’amministrazione. Ora, a parte la già citata coppa America e qualche dozzinale spettacolo di piazza (la cui incidenza sul turismo non è quantificabile, e se anche lo fosse non compenserebbe mai le ingentissime somme spese), questo è totalmente falso.
I flussi turistici crescono a Napoli perfettamente in linea con le altre maggiori città italiane, ed esclusivamente per due motivi: 1) il terrorismo islamista, che spinge turisti italiani ed europei a dirigersi verso paesi che si ritengono non toccati, o meno toccati, da esso; 2) la persistente crisi economica, che induce a rinunciare a vacanze in luoghi troppo lontani e costosi, per concentrarsi su località maggiormente a portata di mano.
Per giunta, le maggiori presenze turistiche sembrano nel complesso troppo volatili per incidere in misura rilevante sul tasso di disoccupazione (che rimane tra i più alti d’Italia), in presenza di una crisi di tutti i comparti produttivi e del terziario che non sembra presentare il minimo segno di miglioramento.
D’altra parte, se si guarda alle argomentazioni di molti tra i suoi sostenitori e alla distribuzione dei suffragi quartiere per quartiere, ci si rende conto che la popolarità di de Magistris ha una radice ben diversa. Una maggioranza relativa di elettori napoletani (al netto dell’astensionismo) distribuita uniformemente tra la borghesia e il tradizionale sottoproletariato cittadino continua nonostante tutto a parteggiare per il sindaco uscente non nonostante, ma proprio a causa delle difficoltà in cui la città si trova – o meglio, all’interpretazione che essa dà delle cause di queste difficoltà .
Questi elettori votano ancora oggi de Magistris principalmente per un sentimento di frustrazione, di umiliazione, e nello stesso tempo di orgoglio identitario. Analogamente ad altre aree del Mezzogiorno d’Italia (la Puglia di Vendola e poi di Emiliano, la Sicilia di Crocetta; ora forse anche la Roma “meridionalizzata” del possibile nuovo sindaco Virginia Raggi), a Napoli una parte cospicua dell’opinione pubblica reagisce alla recessione e alla disgregazione sociale con un moto di campanilismo “sudista”, addebitando i propri guai al disinteresse, o addirittura ad una cosciente opera di affossamento da parte dello Stato centrale, del resto d’Italia, del Nord, dell’Europa, dei “poteri forti” economico-finanziari internazionali.
Tale opinione pubblica individua negli attegiamenti ribelli, sfrontati di de Magistris il segno di una profonda identificazione con la propria rabbia, e vede in lui un difensore dell'”onore” e dell’integrità della città contro orde di “colonizzatori”. La caratterizzazione essenzialmente sentimentale del consenso attributogli, nutrito dal rancore e dal vittimismo, spiega come mai il sostegno a de Magistris sia tanto socialmente trasversale.
Quella borghesia che era cresciuta sull’espansione edilizia laurina, poi sui finanziamenti a pioggia e l’ipertrofia del pubblico impiego dell’era democristiana, e infine sulle commesse e consulenze dell’epoca bassoliniana pagate con i progetti dell’Unione europea, ora non vede più spiragli nel proprio futuro. Così, anziché identificare, come dovrebbe, in de Magistris una tra le cause dei suoi problemi, preferisce illudersi di avere in lui un paladino contro un generale “complotto” di nemici esterni contro Napoli: in ciò saldandosi con l’estremismo “benecomunista” di giovani dei centri sociali e intellettuali radical chic (in genere figli di quella stessa borghesia) e il tradizionale lamento assistenzialista/parassitario della plebe cittadina.
In questo modo larga parte della società napoletana perpetua e approfondisce il circolo vizioso di una regressione crescente della città verso il sottosviluppo, di un suo crescente allontanamento dagli standard europei e occidentali. Quella che si stringe ancora attorno a de Magistris è una Napoli amareggiata e sconfitta, passiva e depressa, che si chiude sempre più in se stessa, gettando sale sulle proprie ferite e distruggendo così le occasioni di una possibile ripresa.
Per questo sarebbe fondamentale che al ballottaggio del 19 giugno tutti gli elettori che sperano ancora in una città aperta al futuro e allo sviluppo economico, al di là delle distinzioni tra sinistra e destra, si riuniscano intorno all’unico avversario rimasto per de Magistris, Gianni Lettieri: imprenditore moderato e pragmatico, disponibile alla collaborazione con soggetti pubblici e privati, e soprattutto con il governo centrale, per dare una scossa nel senso alla situazione comatosa del capoluogo campano, ponendo fine all’infelice e distruttiva parentesi della demagogia “arancione”.
Se ciò non accadrà , e la maggioranza degli elettori, per un malinteso senso di rivalsa, si lascerà ancora sedurre dal furbo “chavista” partenopeo che ne eccita le pulsioni isolazioniste, la città continuerà sulla via di quello che è un vero e proprio suicidio, rassegnandosi a livelli di vita da terzo mondo in nome di fumose rivendicazioni “partecipazioniste” e autonomiste.