Dei difficili rapporti fra il giurista Cossiga e la magistratura italiana
17 Agosto 2010
Ho molto stimato e quasi sempre approvato Francesco Cossiga, a partire dai suoi anni difficili, dal terribile 1978. Avrei dovuto dirglielo, gli avrebbe fatto piacere; ma non mi conosceva, e in genere temo una interpretazione peggiorativa dei miei sentimenti.
Mi vanto, però, di quella predilezione, confessata tra amici ghignanti allora come ieri, per l’intellettuale cattolico, il giurista e il presidente Cossiga, il migliore, mi sono detto mille volte, il più interessante, e l’unico, tra quanti ho conosciuto, esente dalle insopportabili retoriche cui spesso indulge la suprema carica dello Stato. Vi pensavo oggi, prima della notizia della morte, leggendo gli impropri e un po’ ingannevoli paralleli tra la sua vicenda e quella del presidente Napolitano. Dell’intellettuale cattolico, notevole, non conformisticamente cattolico-democratico, ricordo solo la penetrante analogia tra l’illusione medievistica cattolica (ottocentesca) sui ‘barbari incontro a Cristo’, e quella novecentesca – anni Quaranta-Cinquanta (e oltre) – sui nuovi “barbari” (il comunismo), sul loro ruolo di dissoluzione-rigenerazione della vecchia Europa e sulla loro finale conversione alla Fede cristiana. Illusione che rese subalterno al PCI molto cattolicesimo; Cossiga aveva còlto bene una chiave di volta culturale, simbolica, di quella remissività. Ma nel 1990-91 il mirabile ‘picconatore’ diagnosticava con profondità la fine dell’ordine consociativo postbellico e di quanto nella Costituzione era e resta ideologia di quell’ordine; invece il Presidente Napolitano, del tutto legittimamente (s’intende), ancora venti anni dopo sembra proteggerli. Non potrebbe esservi distanza più grande.
Ho ripreso in mano la nutrita cartellina di appunti personali dedicati a Cossiga presidente tra il 1991 e il 92. Rileggo la minuta di un biglietto scritto, nella prima metà del giugno 1991, ad un amico economista, democristiano, ‘andreottiano’ si diceva allora, più avanti di me negli anni e con ruoli ufficiali. “Ricorderai – scrivevo – il mio giudizio di mesi fa [forse Natale 1990] sull’errore di grande portata che la DC stava [già allora] consumando nei rapporti con il Presidente della Repubblica. Errori di intelligenza politica, tattica e ancora più strategica. Credo che l’attuale momento [dopo il risultato dei referendum abrogativi del 9 giugno, durissimo, così lo si lesse, verso le classi dirigenti] confermi nei termini peggiori quella convinzione. È difficile non cogliere dietro certe esibizioni (…) di purismo costituzionale e di iper-legalitarismo una essenziale insicurezza di giudizio (e paura di responsabilità) della classe politica cattolica di fronte agli ordinamenti democratici.
Dal confronto Cossiga esce maiuscolo. Intendo dire che è per timore ideologico e morale (per un antico timore di essere imputati di minore lealtà nei confronti dello stato laico) che ci si attesta ora su una specie di cieca tutela dell’esistente. (…) Ma è altrettanto difficile non cogliere una tenace (…) reazione di ceto politico (e in questo la DC è in buona compagnia) di fronte ad un’iniziativa politica – quella del Presidente – che non viene dall’interno [della DC] e che la scopre senza risorse (intellettuali e politiche) (…). Così la straordinaria chance di immettersi nella scia della sussunzione di responsabilità del Presidente [Cossiga], [e] di istruire ed anzi guidare con forza il processo di revisione costituzionale, esibendo ad un tempo una capacità di autoriforma (…), è stata perduta.
(…) Usando il termine ‘autoriforma’ alludo a questo: senza dubbio accettare l’azione di ‘stimolo e impulso’ [del Presidente della Repubblica] in conflitto con le proprie posizioni, pare alla DC l’accettazione di un ‘signore’ (politico) sopra di sé (…). Ma, essendo tale ‘impulso’ perfettamente legittimo (né il governo può pensare di pregiudicare la libertà del Presidente nel messaggio al Parlamento), per la DC disporsi a riconoscerlo è chiarire al Paese che il partito non si ritiene il padrone delle istituzioni”. Aggiungevo, a mano nella minuta: “Non è difficile decifrare le ragioni (riflesse, meditate, per quanto tacite) della sinistra, nell’opposizione al Presidente: accettare il [suo] ruolo di ‘supremo moderatore’, di fronte a situazioni-limite, “di stallo” ecc., equivarrebbe a togliere alla sinistra appunto un ruolo e uno spazio analogo e concorrente [a quello rivendicato da Cossiga] di forza rigeneratrice della vita politica nazionale”.
A parte criticavo il diffuso lamento democristiano per i rischi di disorientamento che l’azione di Cossiga avrebbe introdotto nel quadro sociale-politico. Consideravo quel lamento, allora come oggi mutatis mutandis, come un “pessimo sintomo”, poiché significava nella cultura DC la sorprendente difesa di un sistema politico spesso criticato come imperfetto, e rivelava la convinzione-illusione che ogni mutamento avrebbe dovuto avvenire sotto il proprio controllo e decisione. Mentre, mi appuntavo, un po’ da professore, “il [vero] mutamento [politico-sociale] è, ed è imprevedibilmente e spiacevolmente, un complesso di fenomeni tutti [sempre] da comprendere e controllare, con difficoltà”. Mi sono spesso ripetuto che se la DC avesse dato corso alla preveggente diagnosi di Cossiga sulla necessità, dopo il 1989, di riforme istituzionali, non avrebbe affrontato la crisi di Tangentopoli come una vuota crisalide, come invece avvenne.
Se applichiamo queste linee interpretative al presente ne vediamo nitidamente le differenze. Legittimi, ora come allora, l’azione di ‘stimolo e impulso’ della suprema magistratura della Repubblica e il suo fermo esercizio di balance, se il Presidente lo ritenga necessario. Ma al di là del dato generale è altra, se non opposta, la geometria degli attori e delle ragioni. Da oltre quindici anni, protagonista di mutamenti ‘materiali’ del sistema politico, oltre che di progetti di riforma costituzionale, è la coalizione al governo costruitasi attorno a Silvio Berlusconi; i Presidenti della Repubblica si trovano, invece, obiettivamente alleati (certamente considerati tali) di una costellazione di ‘sinistre’ e di minoranze di “difesa della Costituzione” postbellica. Per queste forze non è difficile riconoscere, anzi celebrare, il ruolo di ‘supremo moderatore’ del Presidente poiché, diversamente dalla congiuntura del 1991-1992, i suoi interventi non tolgono ma rianimano per la sinistra quel ruolo di assoluta difesa dell’esistente costituzionale, e ad un tempo, quello spazio di “forza rigeneratrice della vita politica nazionale”, cui accennavo. Istruttivo è che, in questa geometria variabile, proprio le opposizioni nel Parlamento e nel Paese (come si usa dire) e chi nella coalizione o cultura di maggioranza ne fa l’imitazione, mostrano senza avvertenza o senza pudore di ritenersi i padroni delle istituzioni. Ogni posizione di allora è dunque ribaltata.
Il conflitto di Cossiga con il CSM e con la cultura politica dominante nei suoi colleghi giuristi, nei durissimi mesi dal novembre 1991 al febbraio 1992 (poi si aprirà Tangentopoli), completa l’interessante relazione antimetrica tra quella congiuntura e la nostra. I professori di ‘Amicus Curiae’ – prestigiosa associazione che intende offrire, da anni, alla Corte Costituzionale l’ausilio della dottrina dei propri membri – ha prodotto un ricchissimo volume sul “caso Cossiga” (Capo dello stato che esterna o privato cittadino che offende? A cura dei costituzionalisti Bin, Brunelli, Pugiotto e Veronesi, Torino, 2004). L’oggetto tecnico era l’ordinanza n.455/2002 CCost sul ricorso inoltrato dall’indomabile Presidente emerito contro la Cassazione (sentenze del giugno 2000). Qualcuno potrà tornare sul merito, che in buona sostanza è quello della legittimità delle ‘esternazioni’ di Cossiga nel corso del suo mandato, e più radicalmente su caratteri e limiti dell’irresponsabilità presidenziale; ma anche sulla singolarità del senatore-presidente che a distanza di un decennio, insoddisfatto del percorso giudiziario 1994-2000 e, sicuramente, della dottrina giuridica e politica in esso esibita, riapriva il caso. Il pluralismo delle posizioni contenute nel volume è giustamente sottolineato dai curatori, ma un acre sentore di ostilità emana da molte pagine. Giuristi e magistrati sono, in prevalenza (almeno nel quadro di ‘Amicus Curiae’), contro l’ex Presidente. Oggi, dopo vent’anni, più esattamente dalla soglia del 1994, i costituzionalisi sono dalla parte dei Presidenti della Repubblica, non per l’assoluto imperativo della fedeltà alla suprema carica, che avrebbe dovuto valere anche nei confronti di Cossiga, ma per scelta politica, legittima e degna quanto si voglia. Anche questo conferma la non assimilabilità tra il caso Cossiga e il caso Napolitano (posto che questo ‘caso’ esista).