Della democrazia in America, vista da sinistra

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Della democrazia in America, vista da sinistra

09 Dicembre 2007

Recensire libri che non siano stati pubblicati nell’anno in corso è del tutto inusuale, a meno che non si tratti di una recensione accademica. Perché, allora, dedicare spazio al volume di Flavio Baroncelli, Viaggio al termine degli Stati Uniti. Perché gli americani votano Bush e se ne vantano  (Donzelli, Roma, 2006)? Perché, in giorni come questi nei quali si sta a fatica placando la polemica sulla visita di Bush a Roma e sulle reazioni di protesta che essa ha suscitato, questo diario di viaggio può risultare illuminante più di altri scritti immediatamente politici per comprendere quel paese oltreoceano e il nostro – di noi italiani, di noi europei – atteggiamento di amore/odio nei suoi confronti. Una decina di anni fa Baroncelli aveva pubblicato “Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del politically correct”, uno dei libri meno letti, eppure più citati e recensiti, degli ultimi anni. Dopo una seconda permanenza negli Stati Uniti ha deciso di tornare sull’argomento, e stavolta si spiega fin dalle prime pagine. Caratteristica di Baroncelli (convinzioni filosofiche a parte: l’autore è stato fino alla sua morte, avvenuta proprio quest’anno, professore di Filosofia morale) era quella di amare l’America e di essere contemporaneamente su posizioni ideologico-politiche di sinistra. Di conseguenza, quando in queste pagine critica il voto americano che un anno fa ha rieletto Bush, non lo fa con il pregiudizio di chi pensa a priori che gli americani siano un popolo stupido, che non ci sia differenza fra repubblicani e democratici, che la civiltà americana sia segnata dal dominio sul mondo che esercita. Cerca invece di comprendere quel paese e le sue scelte, anche quelle che viste da qui risultano talvolta incomprensibili o irrazionali.

Nel libro precedente si era interrogato sul politically correct, cioè su quella richiesta di attenzione linguistica al fine di evitare espressioni offensive o discriminatorie nei confronti di minoranze sessuali, razziali, etniche, religiose o di qualunque altro tipo: nel periodo in cui la sinistra italiana diventava moderna e liberale a grandi passi, ironizzare su tale sforzo di correttezza significava di fatto prendere le distanze da politiche che tendevano alla ricerca della parità, dell’eguaglianza, della compensazione di svantaggi iniziali. Baroncelli aveva ironizzato su alcuni eccessi del politicamente corretto, ma aveva argomentato che lo sforzo valeva la pena di essere compiuto, soprattutto se si voleva dirsi ancora di sinistra: la situazione di minorità in cui vivevano, ad esempio, le donne era uno scandalo che doveva essere segnalato anche nel linguaggio. Il politically correct, insomma, ai suoi occhi non era solo sorveglianza e autosorveglianza nevrotica, ma l’espressione di problemi che esistevano davvero e che in quegli anni si cercava di risolvere con le cosiddette azioni positive; le azioni positive furono poi molto discusse e infine abbandonate oltreoceano proprio mentre si iniziava a metterle in pratica qui da noi.

Che cosa sostiene l’autore nel secondo libro americano? Compie una escursione nella democrazia al modo di Tocqueville, ma nel suo viaggio il termine democrazia è da intendere solo in uno dei due sensi in cui lo utilizzava il grande francese: lasciando da parte la democrazia come sistema politico, è nella democrazia come modo di vita che il nostro turista intellettuale si immerge, ed è con la democrazia realizzata giorno per giorno che si confronta. E’ proprio il confronto con la democrazia americana a spiegare il fatto che gli americani abbiano potuto votare una prima volta e votare di nuovo un presidente come Bush. Nel Sud degli Stati Uniti, dove stavolta  si muove, l’autore si imbatte infatti in un idealtipo: quello dell’individualista anti-statalista  a cui stanno a cuore le libertà proprie (e assai meno quelle altrui), profondamente razzista e maschilista, attaccato alla famiglia, alla tradizione, alle piccole patrie. C’è da stupirsi – si chiede l’autore – che questo Sud, dal DNA anti-intellettualista e che gli intellettuali europei (ma anche americani) in genere non conoscono affatto, c’è da stupirsi che voti Bush sebbene l’America sia e resti un paese democratico?

Baroncelli compie un lavoro difficile e prezioso nello spiegare questo apparente paradosso attraverso i volti della gente comune, i discorsi dei poveracci che siedono a tavola con il cappello da cow-boy, l’infinito susseguirsi di città senza un centro, una vastità così grande da far risultare sospetto chiunque non si sposti in automobile. Il libro si legge d’un fiato e ha le movenze di un film: evoca immagini, vento, grandi distese e lunghi viaggi accompagnati dalla  radio, facce di persone non particolarmente ricche che, tuttavia, hanno dato il voto a un programma liberista che non  arrecherà loro nessun vantaggio. Quelle persone, però, non sono affatto irrazionali: “Pensano – scrive Baroncelli – che sia conveniente investire in politiche che restringano le libertà delle persone che hanno una morale diversa dalla loro.” Credono sia giusto che il forte vinca sul debole, vedono nelle discriminazioni differenze naturali oppure invenzioni degli intellettuali, odiano non lo Stato in generale, ma quello Stato in particolare: lo Stato federale che ha speso i soldi delle tasse per i neri, i poveri, l’arte e la cultura. Hanno paura del terrorismo e non hanno obiezioni contro una guerra che si svolge lontano da loro; soprattutto, si assumono una grande responsabilità personale per successi e insuccessi, una responsabilità magari autolesionista ma che l’autore apprezza.

Sono valori diversi dai nostri, da quelli di Baroncelli, da quelli della sinistra. E’ solo riconoscendo i valori nei quali non crediamo per quello che realmente sono, dando loro pari dignità rispetto a quelli ai quali aderiamo personalmente o come gruppo, che è possibile interrogarsi con onestà intellettuale su di essi, criticarli anche aspramente. Operando in questo modo molte incomprensioni, molti giudizi negativi e pregiudizi che dividono Europa e Stati Uniti certo non si dissolverebbero, ma forse potrebbero essere ricondotti a una misura ragionevole.