Dell’arte di fermare il momento prima di perdersi con gli occhi nell’infinito
07 Giugno 2009
“Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?”. Nella sua semplice naturalezza, e in fondo proprio per questo, la profondità della domanda è stupefacente. Ed è di Fernando Pessoa. Un riassunto fulmineo, così, dell’essenza di quel clic che fa impazzire maestri del mestiere e turisti per caso, dell’arte di fermare quell’esatto momento prima del quale ci perdiamo con gli occhi nell’infinito. E proviamo a raccogliere quello smarrimento e a incrociare l’eternità. Voilà la fotografia.
Ad essa la città di Reggio Emilia regala un tributo, che quest’anno (gallerie e mostre aperte fino al 7 giugno) taglia il quarto traguardo e segna finora circa cento mila visitatori all’attivo. Tanto che “Fotografia europea”, questo il nome della manifestazione dedicata nel 2009 proprio al tema dell’eternità, è ormai la più importante rassegna fotografica internazionale in Italia, e sicuramente tra le maggiori del Continente. Dove il cuore profondo dell’Emilia ha stretto una collaborazione con il polmone verde della Provenza e “Les Rencontres d’Arles”, da quarant’anni ospite delle più innovative tendenze della fotografia mondiale. Più di duecento sono gli spazi espositivi nella patria di Ludovico Ariosto e Nilde Iotti, dello gnocco fritto e del parmigiano, dove tra Piazza San Prospero e Spazio Gerra, tra Galleria Parmeggiani e Teatro Ariosto, si raccolgono le opere di alcuni fra i migliori artisti contemporanei e non. E alle grandi mostre personali fanno da contorno gallerie e “progetti” dedicati, oltre a una miriade di piccole esposizioni in bar, circoli, ristoranti, negozi…Una città che nella sua totalità respira l’arte della fotografia, e vi partecipa, seppur senza l’invasività di alcuni festival letterari, quasi con discrezione.
Ci si imbatte nelle raffinatezze del filosofo e sociologo Jean Baudrillard, teorico della postmodernità e critico della società dei consumi (fondamentale l’omonimo testo del 1976), che si diede alla fotografia per rappresentare l’eterno proprio attraverso l’oggetto del consumo, il prodotto, che a sua volta rimanda a suggestioni geografiche e urbane. Come in Amsterdam, rappresentata attraverso una bicicletta abbandonata su un palo lungo un canale cittadino tinto di giallo. Nei Googlegrammi dello spagnolo Joan Fontcuberta, che rappresenta scene del reale attraverso mosaici di immagini raccolte utilizzando Google: il muro che divide alcuni territori palestinesi, le cascate del Niagara, la Muraglia cinese. O nella spettralità dei paesaggi (come Le jardin magique) e nella metafisica delle nature morte del grande fotografo ceco Josef Sudek, intento a cogliere sprazzi di non-spazio non-tempo attraverso le angolature delle finestre del suo studio praghese.
E poi Luigi Ghirri, reggiano doc, il cui ultimo scatto prima di morire – un corso d’acqua raccolto tra due verdi pareti d’erba si perde nell’infinito della nebbia emiliana, là dove forse si perde l’infinito della vita – è esposto, pezzo unico, all’interno della sinagoga. Le francesi Katy Couprie, che riproduce con la carta persone e oggetti prima d’immortalarli su sfondi naturali, e Françoise Huguier, grande viaggiatrice in terra d’Africa, che presenta qui Kommunalka, un progetto girato all’interno di una comune di San Pietroburgo, tra prostitute, sozzura e ambienti trash tipici dell’immaginario e della realtà dell’era post-sovietica. Aldo Tagliaferro, pittore e fotografo concettuale legnanese, con la sua soffocante ricerca di senso dell’Io, segnata dalla ripetitiva rappresentazione di sé in bianco e in nero, io e non-io, giorno e notte, quasi uno yin e yang in salsa lombarda. Per non dire, infine, di Clear Light, rassegna dedicata al decennale esilio del Dalai Lama: cinquantacinque fotografi italiani hanno fatto dono dell’opera da loro ritenuta maggiormente rappresentativa della propria consapevolezza, e la “Chiara Luce” nel buddismo tibetano è proprio il principio dell’intuizione, ovvero il livello più profondo della coscienza e, appunto, della consapevolezza.
Un’unica assenza a Reggio Emilia. Un’assenza che in genere fa rima – se non baciata, quanto meno di senso… – con eternità. Dio. Quasi a dire che la sua impronunciabilità non possa concretizzarsi se non nell’incapacità di fornirne una sua rappresentazione. Il Tetragramma israelita che non si rende visibile. O forse che Dio non possa che accompagnare l’eternità in ogni angolo di vita, si tratti della natura di un uovo posato su un piatto, del vuoto pornografico di un bordello russo, del paesaggio lunare della Namibia. Ma se non si coglie l’Assoluto forse non si coglie neppure il senso dell’eterno, e allora la domanda di Pessoa rimane senza risposta. In fondo, come diceva San Gregorio Magno, “solo lo stupore conosce”. Anche l’eternità.