Denunciamo il nuovo razzismo di chi paragona Gaza ad Auschwitz

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Denunciamo il nuovo razzismo di chi paragona Gaza ad Auschwitz

Denunciamo il nuovo razzismo di chi paragona Gaza ad Auschwitz

17 Marzo 2010

Si è conclusa la sesta settimana mondiale “Israel Apartheid Week”, volta a denunciare il regime di apartheid che Israele imporrebbe in modo analogo a quanto accadde in Sudafrica. L’intellettuale olandese Ian Buruma, che certamente non è un sionista, ha definito questo paragone «intellettualmente pigro, moralmente discutibile, e persino menzognero». Nella settimana un deputato arabo-israeliano ha viaggiato negli USA e in Canada per spiegare che Israele è uno stato di apartheid. Ma se è così, perché esiste un deputato arabo che rappresenta al Parlamento israeliano i cittadini arabi israeliani? E come mai costoro possono avere deputati, persino un ministro, una stampa autonoma, non hanno vincoli a frequentare le spiagge e i ristoranti? Perché questo era l’apartheid sudafricano.

Come mai quel deputato può entrare liberamente nei territori controllati dall’Autorità Palestinese, può avere incontri con i dirigenti di Hamas e Hezbollah, andare e venire tra Israele, Siria e Libano, magari per tenervi propositi anti-israeliani?  E non si dica che le barriere tra i territori di Israele e quelli palestinesi configurino qualcosa di analogo ai bantustan. In primo luogo, perché le barriere hanno una funzione di sicurezza e non di segregazione razziale e sono destinate a sparire appena conseguito un accordo di pace. In secondo luogo perché non si è mai sentito di bantustan sudafricani gestiti in autonomia, persino con una polizia armata.

Nella diffusione di questo indecente paragone porta una grande responsabilità il vescovo sudafricano Desmond Tutu che, diversi anni fa, si scagliò su The Guardian contro il potere della “lobby ebraica”, aggiungendo che «anche il governo dell’apartheid era forte, ma non esiste più. Anche Hitler, Mussolini, Stalin, Pinochet, Milosevic e Idi Amin erano forti, ma alla fine hanno morso la polvere».  La giornalista inglese Melanie Phillips, nell’accusarlo di sfacciataggine, espresse stupore di fronte al fatto che un vescovo cristiano ripetesse «la menzogna del “potere ebraico” confrontato per giunta con quello di Hitler, Stalin e altri tiranni», aggiungendo che era indecente tacere delle persecuzioni dei cristiani da parte degli islamisti nel mondo, e denunciare soltanto gli israeliani che sono sulla linea del fronte di questo terrore.

Queste parole sono oggi più attuali che mai. Dall’accozzaglia indegna che si riunisce annualmente per fare professione di antisionismo – in realtà di odio antiebraico – non c’è nulla da attendersi. Sono i veri razzisti. Blaterano di Gaza come Auschwitz ma non dicono una parola delle vittime israeliane del terrorismo, non una parola dei bambini di Sderot. Se salta per aria una sinagoga o un ebreo viene torturato a morte da una banda islamista a Parigi, voltano la testa dall’altra parte. Parlano di discriminazione ma non dicono che un omosessuale palestinese, se vuole sopravvivere, deve rifugiarsi in Israele. Parlano di apartheid ma tacciono su quel che sta accadendo in Giordania e che il New York Times ha denunciato, e cioè che cittadini identificati come “palestinesi”, pur se aventi la cittadinanza giordana prima che Israele esistesse, ne vengono privati per inventare un diritto al ritorno in Israele.

Condannano il razzismo ma non dicono una parola dei cartelli posti all’ingresso dei locali di Petra: “Vietato l’ingresso ai cani e agli israeliani”. Qualche antisionista nostrano ha commentato: «Che hanno fatto di male i cani?». Da questa accozzaglia pseudointellettuale non ci si può attendere che questo. Ma dagli altri? Criticare Israele si può? Certamente. Ma demonizzare Israele come il concentrato di tutti i mali della terra è un’infamia razzista che nessuna persona onesta deve tollerare.