“Deve essere netto il confine tra libertà di cura e diritto a morire”
08 Luglio 2011
Signor Presidente, senatrici e senatori, vorrei ringraziare tutti coloro che sono intervenuti e hanno dato vita ad una discussione intensa, mai superficiale, di grande livello anche sul piano della civiltà dei toni. Il dibattito che si è svolto in questi giorni al Senato ha dato ragione a chi ritiene che nel Paese, come in Parlamento, il tema delicato della fine della vita sia stato approfondito e svolto in tutte le sue implicazioni e che debba ormai approdare ad una legge.Da circa dieci anni, infatti, si presentano e discutono disegni di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, mentre vicende come quelle di Piergiorgio Welby e, soprattutto, quella traumatica di Eluana Englaro hanno turbato l’opinione pubblica, sollecitandola a confrontarsi con il problema, al di là delle semplificazioni sullo staccare la spina, spingendo ciascuno di noi a informarsi, a distinguere e a maturare convinzioni meditate. Sulla necessità di dare un esito legislativo a questo lungo dibattito e di portare a compimento un iter parlamentare che più volte si è interrotto si sono espresse le massime autorità dello Stato, primo fra tutti il presidente Napolitano. Non farlo significherebbe alimentare i dubbi dei cittadini sulla capacità dei propri rappresentanti di svolgere con efficacia il compito legislativo rischiando di dare spazio a chi lamenta la tendenza del Parlamento a impantanarsi in discussioni senza sbocco, lasciando ad altri le decisioni.
Fare una legge è più che opportuno: è necessario. Del resto è l’impegno che insieme abbiamo preso la sera in cui la drammatica notizia della morte di Eluana Englaro ci è piombata addosso mentre eravamo riuniti in questa stessa Aula. Oggi dobbiamo onorare quell’impegno, dimostrare che tra maggioranza e opposizione è possibile una dialettica accesa ma non paralizzante e che, senza per forza arrivare a posizioni comuni, si può però evitare di irrigidirsi pregiudizialmente in blocchi contrapposti. Il dialogo fra maggioranza e minoranza, infatti, c’è stato e può continuare. C’è stato grazie a chi da entrambe le parti ha voluto sfuggire al rischio del muro contro muro, non certo grazie a chi ha ceduto alla tentazione di atteggiamenti ostruzionistici.
Le mozioni presentate la notte della morte di Eluana, per esempio, partivano entrambe dalla definizione di idratazione e alimentazione come sostegno vitale e non come terapie e anche in Commissione, al di là di alcuni momenti di tensione, il confronto è stato utile: il disegno di legge è cambiato, come ha ricordato anche il relatore Calabrò, per esempio sul consenso informato, sulla durata delle DAT, sulla registrazione presso i medici di base. Ci può essere ancora spazio per ulteriori modifiche, sempre tenendo fermi i punti fondamentali su cui è costituita la legge e che voglio ancora una volta ricordare: la necessità di un consenso informato scritto e firmato, che non permetta di ricostruire a posteriori le volontà presunte di una persona non più in grado di esprimersi (come è accaduto per Eluana); un margine di autonomia per la valutazione del medico, che non può essere ridotto ad un ruolo di semplice esecutore o prestatore d’opera; la garanzia che idratazione e alimentazione non possano mai essere negate a nessuno.
So che questo è un nodo fondamentale, anche se non mi è chiaro fino in fondo come una norma di garanzia sia diventata una frontiera, un terreno elettivo di scontro. Nessuno che sia in grado di intendere e volere vuole morire di sete. Non si tratta affatto di una dolce morte, come sappiamo tutti, ma di una agonia lenta e dolorosa. Perché dunque è diventato per alcuni l’emblema dell’autodeterminazione, l’espressione simbolica di una assoluta libertà personale? Più volte è stato fatto notare come i limiti a decidere sul proprio corpo siano ribaditi in vario modo nella nostra legislazione. Per esempio, nell’obbligo di indossare il casco, mettere la cintura di sicurezza o ancora nel divieto di vendere parti del proprio corpo o di automutilarsi. Tutti divieti incomprensibili e incongruenti se si dovesse partire davvero da una assoluta disponibilità di sé stessi. Se incontriamo qualcuno che vuole suicidarsi, cerchiamo di impedirglielo anche con la forza e sentiamo di aver fallito gravemente se non ci riusciamo. Eppure, un aspirante suicida ha certamente ragioni terribili e disperate per voler morire e queste ragioni il passante non può nemmeno conoscerle e valutarle: il gesto di impedire la morte è istintivo e pregiudiziale ed il fatto che chi sta per buttarsi da un ponte sia sicuramente autodeterminato non ci ferma.
Temo che dietro il criterio dell’autodeterminazione agisca un altro criterio, non sempre esplicito e nemmeno sempre consapevole: quello della qualità della vita. Non si tratta tanto del dolore fisico, che ormai si può quasi sempre sconfiggere o enormemente attutire (voglio anch’io ricordare che presso la XII Commissione della Camera dei deputati è ormai in votazione un testo condiviso sulle terapie del dolore e sulle cure palliative): non si sceglie quasi mai la morte perché si soffre fisicamente in modo insopportabile. Piuttosto la si sceglie perché si ritiene la propria esistenza indegna di essere vissuta, la si ritiene una sorta di non vita.
Il corpo che ti abbandona, si degrada, va per conto suo, è la naturale preparazione a quella cerimonia degli addii che tutti dobbiamo affrontare. Invecchiare e morire è sempre un percorso costellato da piccole e grandi incapacità, un progressivo scivolamento verso la non autosufficienza, verso la necessità di essere assistiti e aiutati come quando eravamo bambini. Se la vita e la sua qualità vengono identificate con l’integrità del corpo, con la piena autonomia, la delusione non può essere che immensa e inevitabile, perché siamo esseri umani che invecchiano, si ammalano, perdono l’autonomia fisica e mentale, e infine muoiono. Introdurre, magari in modo implicito, l’idea della qualità della vita è terribilmente rischioso; nello sforzo di cancellare il dolore e l’imperfezione, si può indebolire la solidarietà e la necessità della fratellanza umana.
Il concetto di "qualità" applicato alla vita umana è pericoloso, non solo perché tende ad assimilare la vita a un bene di consumo, giudicandola secondo standard di tipo statistico, legati all’autonomia fisica e mentale, o alla capacità di svolgere alcune funzioni. Ma anche perché l’idea di qualità della vita nasce come espressione del giudizio soggettivo – sono io che giudico la mia qualità della vita – ma finisce troppo spesso in una oggettività stabilita appunto da criteri medi, dalle leggi del mercato o da soggetti terzi. Quando si afferma di preferire la morte a una condizione di non perfetta capacità razionale, o a una condizione di dipendenza – e lo si è fatto anche in quest’Aula – diventa più difficile affermare che ogni vita è degna di essere vissuta, che un grave disabile o un malato di mente possono condurre un’esistenza dignitosa come quella di una persona sana. Il male non si può cancellare, si può soltanto tentare di lenirlo, ripararlo, ed è questo il compito di chi sta vicino a una persona sofferente. Non c’è bisogno di credere in Dio per pensare questo, basta credere negli uomini.
La legge che stiamo per approvare – ci tengo a dirlo – è una legge di libertà, una normativa per applicare il tanto citato articolo 32 della Costituzione, che tra l’altro è quasi integralmente riportato nell’articolo 1 del testo Calabrò. Dobbiamo garantire la continuità dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, dunque la possibilità per il paziente di partecipare alla scelta della terapia anche quando non è più in grado di esprimere scelte, quando non sia cosciente e vigile, evitando il paternalismo medico e basandoci sul consenso informato. Si tratta di garantire la libertà di cura, stabilendo un confine che talvolta può essere sottile, ma deve sempre essere netto, con il "diritto a morire". Per questo è fondamentale stabilire cosa è terapia e cosa non lo è, e per questo idratazione e alimentazione hanno assunto un valore così fortemente simbolico.
Tutti noi, in qualche momento della nostra esistenza, da piccoli, quando siamo malati o quando siamo per qualunque motivo incapaci di fare da soli, siamo affidati alla cura di chi ci vuole bene. L’accudimento, l’affidarsi nelle mani di altri è parte della nostra vita di relazione e nessuno può diventare adulto senza aiuto e cura. In inglese si parla di «care» e di «therapy», mentre in italiano il termine cura ha un doppio uso semantico e questo può generare confusioni: cura vuol dire terapia, ma anche accudimento. Distinguere, però, non è difficile: i gesti di cura non sono terapie, a prescindere da qualunque aiuto tecnologico.
Non è terapia aiutare qualcuno nella mobilità, sia che gli forniamo la più tecnologica delle carrozzine, sia che semplicemente lo sosteniamo con le nostre braccia o lo accompagniamo. Non è terapia dare il latte a un bambino, anche se è latte artificiale, acquistato grazie a una ricetta medica, e somministrato con un biberon. Non è terapia qualunque gesto di accudimento, come vestire o coprire chi non può farlo da solo: eppure, se non lo facciamo, una persona può morire di freddo. Esiste, in questo senso, la più semplice delle controprove su cosa sia o non sia terapia: se un malato di una qualunque patologia, per esempio un tumore, sospende la propria terapia, morirà di tumore; se lo stesso malato sospende idratazione e alimentazione, magari fornita col sondino, non morirà di tumore, ma di disidratazione e denutrizione. Questa differenza vale anche per la ventilazione, di cui si è chiesto più volte in quest’Aula.
Voglio ricordare che su questo punto, cioè se idratazione e alimentazione siano o no terapie, non c’è accordo nella comunità scientifica, contrariamente a quanto alcuni hanno detto. Talvolta, chi chiama più decisamente in causa la scienza, trascura di accertare se la scienza sia concorde, oppure trascura di ricordare le ultime acquisizioni scientifiche. Penso a quante volte ho sentito parlare di "stati vegetativi permanenti" o di "irreversibilità", definizioni che da tempo non sono più adottate per le persone in stato vegetativo. Sappiamo pochissimo, in realtà, dei malati ritenuti in condizione di incoscienza, tanto che recenti ricerche hanno dimostrato un’insospettata attività cerebrale in alcuni pazienti in stato vegetativo: sono persone che "sentono", che trattengono, in qualche remoto angolo della mente, emozioni, immagini e ricordi. Tutti quelli che hanno avuto una persona cara in coma o in stato vegetativo conoscono bene l’ansia con cui si spia un segno, si cercano le tracce di un riconoscimento, un guizzo di coscienza; e se quel segno tanto atteso non arriva, nessuno può davvero assicurare che ogni rapporto sia reciso e che una carezza, una voce non suscitino una risposta silenziosa. È grave non riconoscere in questa condizione una forma di disabilità estrema, come sostengono del resto tutte le associazioni dei familiari di persone in stato vegetativo. È grave parlare di "mera vita biologica", senza adottare nemmeno, come ha ricordato il ministro Sacconi, il laicissimo principio di precauzione.
Non è l’incoscienza, anche duratura, a non rendermi persona. Lo Stato vegetativo non coincide con la fase terminale delle vita ma solo con una patologia estremamente invalidante, qualcosa verso cui dovremmo avere un di più e non un di meno di cautela e di rispetto. Il limite su cui tutti possiamo concordare è quello dell’accanimento terapeutico che, però, acquista significato solo quando una persona è avviata verso la morte naturale.
Ed è questo il senso anche della lettera erroneamente attribuita a Paolo VI, che ho sentito mille volte citare negli ultimi giorni. Autore e firmatario della lettera è, in realtà, il cardinale Villot e non il Pontefice. Ma il senso era proprio nel deciso rifiuto delle terapie sproporzionate nel momento in cui ci si avvia verso la fine della vita. Un limite ragionevole e condivisibile, con cui concorda il sentimento di fratellanza che tutti condividiamo e che ci fa riconoscere nella morte non un momento di libertà ma il cuore della condizione umana e della sua intrinseca fragilità e limitatezza.
(Intervento in Senato nel corso della discussione sul disegno di legge in materia di fine vita e Dat – 24 marzo 2009)
* Sottosegretario al Ministero della Salute