Di Forza Italia, del carisma e della durata in politica
31 Luglio 2007
Nello scorso mese di dicembre Forza Italia, in collaborazione con la fondazione Magna Carta, organizzò a Firenze un convegno sulla forma-partito. Il tema si presta a ogni tipo di sarcasmo: troppo astrattamente politologico e apparentemente distante dai problemi reali della lotta politica.
In questi giorni ho dovuto correggere le bozze di stampa di quegli atti. E rileggendo quegli scritti a freddo, a distanza di oltre sei mesi, quel momento mi è invece apparso come espressione di una sorprendente consapevolezza da parte della classe dirigente del partito. Dagli interventi emerge la coscienza che per Forza Italia una fase s’era definitivamente chiusa. E che si sarebbe aperto un periodo nel quale, per salvare il patrimonio fino ad allora accumulato, sarebbe stato necessario intraprendere percorsi inediti.
Prima di spiegare il perché di questa impressione, serve una premessa. Alcuni elementi dello scenario politico d’allora – sia interno che esterno al partito -, apparivano molto differenti da come si presentano oggi. Per fermarsi alle differenze più significative nella prospettiva scelta dal convegno, per quanto concerne la dimensione interna, il progetto dei Circoli della Libertà si presentava ancora scontornato, privo cioè di quelle caratteristiche che in seguito avrebbe assunto: una leadership individuata, una forte esposizione mediatica, un settimanale, una televisione. In riferimento alla realtà esterna, invece, va ricordato come le difficoltà di Prodi e del suo governo erano incomparabili rispetto a quelle emerse nei mesi successivi. C’era già stata la grande manifestazione del 2 dicembre di Piazza San Giovanni. Ma che il fallimento di Prodi avrebbe determinato un impressionante rilancio della forza carismatica del leader di Forza Italia era un effetto allora solo pronosticabile e non ancora una realtà.
Sullo sfondo di questo scenario, mi ha colpito innanzi tutto l’elenco degli interventi. Nella prima parte del convegno – quella più teorica – fior d’intellettuali di sinistra discutono mischiando la loro voce con quella degli analisti più prossimi al centro-destra per spiegare la peculiarità del “caso” Forza Italia. Nella seconda, invece, accanto ai discorsi di Bondi, Cicchitto, Verdini, si trovano le analisi di Schifani, Scajola, Tremonti e Dell’Utri. Tutti insieme – forse per la prima volta – parlano del partito da uomini di partito. Impossibile non chiedersi per quali ragioni questo sia accaduto.
Una prima risposta deriva dalla considerazione degli elementi congiunturali. Nel corso della legislatura 2001-2006 gran parte delle energie di Forza Italia si erano trasferite al governo o nelle istituzioni. Il partito, di conseguenza, era diventato una sorta di camera di compensazione degli equilibri esterni, con il compito di gestire le retrovie. Ha svolto il suo compito al riparo dei riflettori della grande ribalta, forse senza eccessiva fantasia politica ma con costante caparbietà. E al momento dei consuntivi è stato difficile negare che la prova offerta da quanti erano rimasti a presidiare quella trincea particolarmente fangosa sia risultata migliore di quella complessivamente prodotta dal personale di governo. Se ne ebbe una prova durante la campagna elettorale, quando vennero alla luce come d’incanto gli effetti della sedimentazione di un’azione politica condotta per oltre un decennio all’ombra di una vera leadership carismatica. In quei giorni vi fu chi ebbe l’amara sorpresa di scoprire che Forza Italia non era plastica. Se l’effetto Berlusconi si è potuto nuovamente produrre è stato anche per l’esistenza di una consolidata base liberal-popolare che, ormai, fa riferimento non a un generico moderatismo ma a Forza Italia.
La nuova stagione politica ha perciò posto un’intera classe politica di fronte a questo bivio: accettare di essere nient’altro che una parentesi ampia quanto l’esperienza di una personalità eccezionale o provare a “istituzionalizzare” le novità emerse per genesi spontanea e, per forza di cose, un po’ disordinatamente. Tale sfida presupponeva un’ulteriore consapevolezza sulla vera natura del carisma, anch’essa evidenziata dagli interventi di quel convegno: esser consci che il potere carismatico può essere utilizzato per fini nobili o ignobili; a scopi democratici o autoritari. Ma l’unica cosa che certamente non è possibile è il lasciarlo o il pretenderlo in eredità. Per questo, chi intenda iscrivere gli effetti del carisma nella durata deve porsi il problema di prevederne l’istituzionalizzazione. E ciò può avvenire o attraverso i meccanismi che sovrintendono il funzionamento dello stato o attraverso la creazione di un corpo collettivo che conceda continuità all’esemplarietà di un’azione, trascendendo la finitezza di un’esperienza biografica. Questo compito – aggiungo io – spetta più ai seguaci del leader carismatico che al leader stesso. A lui si può legittimamente richiedere una cosa sola: di svolgere la propria azione carismatica fino all’ultimo giorno del suo servizio pubblico, creando spazi e opportunità che i suoi seguaci, se ne saranno in grado, possano mettere a frutto per dare continuità alla sua esperienza.
Bilancio di un semestre.
Dopo sei mesi da quell’evento volgiamoci indietro per domandarci: quale traduzione politica hanno ricevuto le consapevolezze di quel convegno? Il bilancio non è negativo. Vorrei ripercorrerne qui i capitoli essenziali.
Ha avuto luogo la campagna di tesseramento e Forza Italia ha superato la soglia dei 400.000 iscritti. La cifra rappresenta un dato significativo nella storia dei partiti in età repubblicana. Solo il P.C.I., la D.C. e per un breve periodo i socialisti morandiani hanno fatto di meglio. Si era, però, in un’altra Italia. Il partito aveva allora, nell’ambito della vita sociale, un’importanza che la modernizzazione economica, con le sue derive omologanti e i suoi riflessi sulla mobilità di classe, gli ha poi sottratto. In seguito sono venute meno anche le ideologie, che al più resistono come “residui”. Sicché, non è esagerato affermare che in una stagione post-ideologica, nella quale il progresso tecnico ha proposto con naturalezza canali di partecipazione politica alternativi ai partiti, i dati del tesseramento di Forza Italia riaprono il discorso sul significato dell’appartenenza politica, contribuendo a scrivere un nuovo capitolo di un libro che si pensava fosse giunto all’epilogo.
E’ stato, quindi, varato il regolamento per lo svolgimento dei congressi, lavoro che è proceduto parallelamente a un più ambizioso tentativo di modifica statutaria non ancora giunto in porto. Non si è trattato di un compito piattamente burocratico. C’erano infatti da individuare regole procedurali che consentissero la convivenza tra pratiche elettive dal basso e, da un determinato livello in su, meccanismi di cooptazione dall’alto, senza i quali nessun potere carismatico può esercitarsi. Il tutto, scongiurando la ricorrente tentazione di “correntizzare” il partito: non per una criminalizzazione acritica di strutture che, in passato, hanno comunque garantito la democrazia interna. Quanto per la convinzione che, nella realtà di un partito carismatico, un livello di garanzia interna minima non possa essere ricercato attraverso forme di segmentazione ma, piuttosto, attraverso l’attivazione di strumenti pubblicistici.
L’approvazione del regolamento è stata la premessa alla stagione dei congressi. Mentre scriviamo ne sono stati celebrati in tutt’Italia poco meno di duemila in altrettanti comuni grandi e piccoli. Sicché non è utopistico immaginare che, allorquando si passerà dalla fase comunale a quella provinciale, nella metà dei municipi italiani sarà stato già insediato un coordinamento di Forza Italia. Per la prima volta, dunque, Forza Italia potrebbe dotarsi di un suo ceto politico diffuso su tutto il territorio nazionale democraticamente legittimato. E, da una proiezione di massima emerge che tra coordinatori comunali e provinciali, con i rispettivi coordinamenti e delegati ai congressi provinciali, ad essere investiti da questo processo di legittimazione non saranno meno di 60.000 iscritti. Dal che derivano due conseguenze che non andrebbero sottovalutate. Innanzi tutto, la creazione di una “rete” di rappresentanti che potrebbe tornare utilissima nel corso delle campagne elettorali e per pratiche che hanno sin qui visto, storicamente, il centro-destra soccombere (come quelle, ad esempio, del controllo della correttezza del voto). E poi l’accentuazione del carattere nazionale di Forza Italia, in controtendenza con la vicenda degli altri partiti che, invece, sempre di più si segnalano per il loro radicamento esclusivo in zone particolari del Paese.
Questa evoluzione interna, d’altro canto, ha trovato una conferma emblematica al momento del turno elettorale amministrativo. Non s’intende certo far finta di non sapere che su quel risultato hanno pesato, e in modo determinante, la disaffezione dell’elettorato di sinistra rifugiatosi nell’astensione e la forza carismatica di Berlusconi, che ha toccato forse uno dei suoi apici più elevati. Tuttavia, resta il fatto che forse per la prima volta in tutta la sua storia, il voto di Forza Italia in una tornata amministrativa ha superato nettamente le percentuali raggiunte dal partito nella più prossima consultazione nazionale. Si tratta, in ogni caso, del segno di una svolta che attende certamente conferme ma che, pur tuttavia, non può essere ignorato. Anche per la significativa circostanza che questo trend appare in controtendenza rispetto a quello descritto dagli altri partiti nazionali della coalizione di centro destra: Alleanza nazionale e Udc.
A questi momenti “maggiori” che hanno segnato l’evoluzione del partito si debbono accostare due circostanze certamente di minore importanza, ma che sono anch’esse sintomo di una fase nuova. La prima è rappresentata dal varo della scuola estiva di formazione, con tre sedi per il sud, il centro e il nord. Si è trattato di un’iniziativa partita in ritardo rispetto a una tabella di tempi ideali. Nonostante ciò, essa ha suscitato interesse e tassi di partecipazione notevoli. Alla fine, sono poco meno di duecento gli studenti che hanno preso parte a quei corsi. Anche in questo caso, non sono mancate le ironie sull’iniziativa, alimentate anche da rimembranze storiche. C’è chi ha parlato di “Frattocchie azzurre”. Non poteva essere altrimenti. Ometto qui ogni commento sul tema perché non pertinente col ragionamento. Oltre che per non correre il rischio di banalizzare un’esperienza – quella delle Frattocchie, per l’appunto – che merita ogni rispetto. Quel che mi interessa, piuttosto è constatare l’avvento di una generazione che si potrebbe definire “integralmente azzurra”: quei ragazzi che nel 1994 avevano dai dieci ai quindici anni, e che oggi manifestano la voglia d’impegnarsi politicamente in Forza Italia. Questi giovani non hanno conosciuto i partiti di un tempo né hanno avuto una militanza politica precedente. Per tutti loro il problema dell’identità politica si pone, per forza di cose, in termini differenti rispetto alle generazioni dei loro “maggiori”. E’ un fatto inconfutabile, che attende una risposta. E queste scuole, pur nella loro provvisorietà, hanno per l’appunto costituito un primo accenno di risposta.
Infine, voglio anche accennare al confronto a distanza con i Circoli della Libertà animati da Vittoria Michela Brambilla. Per mesi quel confronto ha mobilitato le attenzioni del partito, rischiando di immobilizzarlo. Si è temuto che il potere carismatico potesse stringere un accordo con una differente struttura, emarginando di fatto il ruolo del partito. E si è corso il pericolo conseguente di rivendicare una rendita di posizione a priori. Il trascorrere del tempo mi sembra abbia chiarito due cose. Da un canto, che al potere carismatico è dato attivare nuovi e differenti canali per espandersi laddove un partito politico, per le sue caratteristiche, può difficilmente giungere. Dall’altro, che un partito, a meno che non decida di suicidarsi, può difficilmente essere surrogato nei suoi compiti da una struttura collaterale per quanto mediaticamente esposta. Non mancheranno altre incomprensioni. Ma già da ora mi sembra che Forza Italia possegga una più chiara coscienza dai rapporti tra partito e organizzazioni collaterali, che oggi operano nell’ambito della sociabilità diffusa – come i Circoli della Libertà, i Circoli del Buongoverno e Italia Libera – in un ambito di riflessione e di studio – come le fondazioni Liberal, Free e Magna Carta – e, infine, in un ambito unicamente mediatico, come da ultimo l’Occidentale e l’Ircocervo.
Che fare?
Il consuntivo potrebbe, a questo punto, apparire un peana. Non era questa l’intenzione perché la strada da percorrere fino alla conquista della maturità appare ancora lunga. Lungo di essa si pone, in primo luogo, il problema dell’iniziativa politica del partito. Si è coscienti, infatti, che il suo ruolo non possa limitarsi a quello di un’agenzia puramente organizzativa. D’altro canto, se non si vuol cadere nel vizio del “partito di massa” a mobilitazione permanente bisognerà anche considerare che l’impegno politico si estrinseca innanzi tutto, ai differenti livelli, all’interno delle istituzioni. Per un moderato – e comunque per un anti-comunista – la piazza deve restare un’ipotesi estrema, alla quale ricorrere solo di fronte a scadenze politiche ultimative. Ciò comporta, di conseguenza, che l’azione politica di un partito carismatico non può e non deve essere pensata disgiunta da quella delle sue rappresentanze istituzionali. La struttura di Forza Italia ha sin qui descritto un’andatura verticale, con il leader egemone sui gruppi parlamentari e questi, a loro volta, preminenti sull’organizzazione extra-parlamentare. In questa prospettiva, il ruolo del partito non può che essere quello di collaborare all’elaborazione politica dei gruppi parlamentari e di collegare il livello istituzionale centrale con quelli periferici nonché con le differenti organizzazioni espressione di quella che, con dubitabile formula, viene indicata come “società civile”. A questo fine precipuo dovrebbe essere pensata e rispondere la struttura dei dipartimenti.
Tradotto tutto ciò in impegni immediati, il primo compito che si presenta al partito nell’ambito dell’iniziativa politica è quello di assicurare l’elaborazione di alcuni progetti legislativi prioritari, che possano esprimere il programma sul quale ci si candida a riassumere le redini del governo. E intorno a quei temi, sviluppare con intelligenza l’iniziativa e la mobilitazione. Silvio Berlusconi e Forza Italia hanno imposto, nell’ambito della competizione elettorale, la centralità del programma. Disperdere questo patrimonio oggi, ancor più che una contraddizione, sarebbe un delitto.
Infine, un’attenzione specifica merita la politica delle alleanze. Un partito giunto a maturità sa di non potervi sfuggire. Per differenti ragioni si tratta oggi di problema estremamente ostico. Innanzi tutto, si dovrà ricordare come la capacità d’aggregare le forze del centro-destra sia stato il cardine del successo di Forza Italia sin dal 1994. E, senza tema di smentite, si potrebbe aggiungere: Forza Italia ha sempre vinto quando è riuscita a conseguire questo scopo, anche se le è costato il sacrificio di parte della propria identità e della propria forza rappresentativa.
D’altro canto, non si possono chiudere gli occhi di fronte ad alcune significative evoluzioni del quadro politico. Nelle formazioni del centro-destra – e con più forza nell’Udc – si scontrano forze contrastanti che, da un canto, puntano a creare un tessuto di più profonda compenetrazione tra le differenti componenti della coalizione, dall’altro coltivano il mito dell’autonomia, nel quadro di un differente sistema politico. Si deve valutare a fondo e in tempo utile questa dinamica, per evitare che, una volta ancora, questa contrapposizione possa scaricarsi sull’azione di governo. L’eliminazione dell’equivoco Follini è di fatto costato un anno e mezzo d’immobilismo. E’ lecito assumere dunque tutte le garanzie che, se si sceglierà di coltivare la politica delle alleanze nel quadro del solo centro-destra, non ci s’incagli nuovamente.
Le evoluzioni del quadro politico, infatti, vanno considerate anche al di fuori dai territori della coalizione. Non soltanto perché la nascita del Partito Democratico, per quanto avvenuta senza il supporto di una adeguata consapevolezza, giunge a rafforzare la dinamica centripeta del sistema e, col tempo, rappresenterà una nuova e più forte concorrenza verso il centro. Anche perché i rapporti a sinistra si sono fatti così tesi da far dubitare che per il Paese il prolungarsi obbligatorio della loro convivenza rappresenti un bene. Ad accorgersene è persino un convinto “maggioritarista” come il sottoscritto, che ritiene la scelta del governo da parte dei cittadini una delle più importanti innovazioni politiche che la stagione apertasi col 1994 ha fin qui portato. D’altro canto, se non si vuol cadere in un ideologismo aprioristico, gli elementi che il nuovo quadro politico ci forniscono non si possono ignorare. Ci si chiede, in particolare, se non ci siano le condizioni per realizzare un vecchio schema, vecchio quanto la scienza della politica: puntare alla creazione di due forze “centrali” tra di loro alternative, veicolo d’integrazione per le formazioni più radicali che gravitano sulla destra e sulla sinistra del sistema politico. Ma che, alla bisogna, in condizione di necessità o in presenza di richieste troppo esose provenienti dalle estreme, possano pur sempre allearsi tra loro.
Solo alla luce di queste verifiche e di queste chiarificazioni andrà fatta una scelta sul sistema elettorale. Se proprio non si potrà fare a meno di cambiarlo, il nuovo sistema andrà individuato sulla base di una meditata opzione in merito alle alleanze da costruire. Ogni sistema elettorale, infatti, rappresenta pur sempre una opzione di natura empirica e approssimativa. Per questo esso deve conformarsi a una politica che, come le intendenze di un tempo, è destinato a seguire.