Di Pietro torna Pm e confonde Napolitano con Forlani
23 Luglio 2009
Era stato tra i primi a sostenere il referendum per la riforma elettorale, salvo cambiare idea poche settimane prima del voto per sopravvenuto “mutamento dello scenario politico”.
Aveva sposato con convinzione l’idea di un apparentamento con il Pd e della successiva costituzione di un gruppo parlamentare unico alla vigilia delle ultime elezioni politiche, salvo andare per conto proprio e sparare contro l’(ex) alleato strategico un minuto dopo la chiusura delle urne.
Congelati i rapporti con il Pd, ha comunque pensato bene di mettere bocca nelle vicende interne del partito, sdegnandosi pubblicamente per la riluttanza dei vertici a consentire la candidatura per la segreteria al provocatore Beppe Grillo.
Se la coerenza non è proprio la dote da cercare nell’Antonio Di Pietro capopopolo, quanto meno gli va dato atto di avere costantemente messo nel mirino i suoi due principali avversari: Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano. Ora, se fa parte delle regole del gioco che il leader di una formazione politica che si autoproclama “l’unica opposizione di questo Paese” si scagli quotidianamente contro il presidente del Consiglio, meno comprensibili sembrano i travasi di bile all’indirizzo del Capo dello Stato, una figura di garanzia che per il bene degli equilibri democratici viene in genere degnata di un certo riguardo anche quando non se ne condividono le scelte, e che nel caso specifico è una delle poche istituzioni in carica a non essere politicamente allineata con le posizioni del premier, costringendo bene o male l’esecutivo a fare i conti con una controparte autorevole in grado di arginarne, se serve, certe velleità.
Napolitano non è un presidente “yesman”, non ha la simpatia naturale di un Pertini o di un Ciampi, ma neanche l’atteggiamento tignoso e parziale dei vari Cossiga o Scalfaro. Esercita un potere non certo illimitato con buon senso, senza fingere di non avere un’idea politica diversa, a volte opposta, rispetto a Berlusconi, ma al tempo stesso cercando di mantenere un dialogo con l’esecutivo in carica. Niente di più orribile, almeno agli occhi di Di Pietro.
“Napolitano è poco arbitro e poco terzo. Il silenzio uccide. Il silenzio è un comportamento mafioso”, aveva sibilato Tonino da un palco lo scorso gennaio. “E’ vero o no che Lei non ha il dovere di inviare “messaggi” al Capo del Governo e nemmeno letterine a mò di rimprovero come “piume d’oca”?”, ha scritto ieri nella lunga requisitoria in cui ha immaginato di mettere alla sbarra Napolitano come fece tanto tempo fa con Arnaldo Forlani.
Un documento, la lettera di Di Pietro, che, se non fosse per i continui richiami alla Costituzione, ricorderebbe i dispositivi di certi processi politici celebrati nei covi delle Br per condannare le vittime dei sequestri. L’ex Pm non fa nulla per dissimulare il carattere accusatorio della sua requisitoria all’indirizzo dell’imputato Napolitano, anzi sembra molto fiero di indossare di nuovo la toga con una rinnovata verve creativa: “Ho curato la lettera nei dettagli – spiega – come facevo con gli atti giudiziari quando ero Pm”. E giù la classica sfilza di “E’ vero o no?” con dito indice metaforicamente puntato, rinunciando per una volta ai più veraci “Che ci azzecca?”, giudicati forse poco adatti a un’aula di tribunale.
L’effetto di tutto questo sforzo, corroborato dalle preziose elaborazioni dello scriba Marco Travaglio, che su Micromega ha parlato di un “Giorgio Ponzio Napolitano”, non si tradurrà in un ostacolo vero alle strategie di Berlusconi, ma in un’azione di disturbo e di delegittimazione del presidente della Repubblica. Oltre, ovviamente, all’imbarazzo ormai endemico creato nel Pd.
E se l’idea di un’alternativa politica al governo di centrodestra così facendo si allontana ancora di più, poco importa: con queste trovate Di Pietro e i suoi potranno puntare con fiducia a un prestigioso, quanto inutile, 10% alle prossime elezioni.