Di tutto sono grato a Pollini tranne che dell’impegno civile e politico

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Di tutto sono grato a Pollini tranne che dell’impegno civile e politico

08 Gennaio 2012

Festeggiando, qualche giorno fa, in una trasmissione culturale di RadioTre, i settant’anni di Maurizio Pollini, il conduttore del programma ha detto che bisogna essere grati al grande pianista non solo per le sue incomparabili esecuzioni ma, altresì, per il suo ‘impegno civile e politico’. Avrei voluto prendere in mano il telefono e chiedergli perché. Pollini, infatti, come il direttore d’orchestra Claudio Abbado del resto, è uno di quei musicisti che onorano il nostro paese. Non sono un intenditore ma solo un moderato consumatore di musica classica e quando mi capita di vedere, in libreria, un CD con i loro nomi procedo subito all’acquisto, con la stessa sicurezza e intima soddisfazione di quando mi capita di comprare ‘prodotti di classe’. Sotto questo profilo, quindi, almeno per quanto mi riguarda, la gratitudine è scontata. Quello che non capisco, invece, è perché sarei tenuto ad apprezzare l’«impegno civile e politico» di Pollini (come di Abbado). E’un dovere, per così dire, ‘universalizzabile’ che riguarda tutti i professionisti, gli artisti, i filosofi, gli sportivi che non si limitano a coltivare il loro giardino ma si guardano intorno e, giustamente, rivendicano il diritto, in quanto uomini, di interessarsi attivamente alle sorti dei loro simili? Se è così avremmo dovuto ringraziare, che so io?, Armando Plebe per non essersi occupato solo di Hegel e di Marx ma per aver fatto politica, per un certo tempo, accanto a Giorgio Almirante, ritenendo misconosciuti dalla cultura di sinistra egemone il valore della ‘patria’ e l’onore della bandiera.
Evidentemente se Pollini, figlio (non per sua colpa) di uno dei grandi protagonisti dell’architettura razionalista fascista, avesse aderito alla ‘Destra Nazionale’ motivato dalla pietas nei confronti di una ‘comunità di destino’ dimentica della sua dignità, su questa scelta sarebbe stato steso un velo pietoso. In realtà, la ‘doverosa gratitudine’ si riferisce a prese di posizione beninteso legittime ma inequivocabilmente antiliberali e antioccidentali. Pollini, si ricorderà, unì la sua voce a quella di quanti condannarono senza mezzi termini l’invasione americana del Vietnam (non risulta che abbia plaudito al grande meeting parigino a favore del boat people che vide dopo tanti anni, i «petits camerades» Raymond Aron e Jean Paul Sartre sullo stesso palco, per denunciare l’esodo in massa dei vietnamiti del Sud poco convinti del paradiso comunista offerto loro dagli eredi di Hồ Chí Minh: ma questo è altro discorso).La sua solidarietà alle vittime del napalm era comprensibile e la sua libertà di protesta fuori discussione: se avesse firmato uno dei tanti ‘manifesti degli intellettuali’ che, negli anni settanta, spuntavano come funghi, nessuno avrebbe trovato nulla da ridire. Ciò che invece risultò assolutamente inaccettabile, almeno in un’ottica liberale, fu la dichiarazione, che tentò di leggere, il 3 marzo 1970, prima del suo concerto al Conservatorio di Milano, contro il bombardamento di Hanoi .«Dopo cinque secondi, ricorda lo stesso Pollini – in un’intervista al ‘Corriere della Sera’ del 10 febbraio 2001 – la parola Vietnam suscita un boato spontaneo. Non avevo la pretesa di fare propaganda politica. Era una semplice protesta contro un efferato episodio di guerra».
L’accaduto è non poco emblematico specie se si considera che, ancora trent’anni dopo, il Maestro non riusciva a rendersi conto del significato simbolico del suo agire e del doppio ‘vulnus’ che esso comportava al rispetto degli altri e alla «par condicio».
 Il primo ‘vulnus’ era la commistione di ‘arte’ e di ‘politica’, l’inquietante passo indietro rispetto a una delle conquiste più preziose della ‘modernità: la separazione delle sfere e, conseguentemente, l’assoluta autonomia della dimensione estetica rispetto alle altre (politica, etica, economica). Pollini sposava, in sostanza, la tesi maoista che non si può fare poesia se milioni di proletari soffrono la fame e patiscono le più orrende ingiustizie sociali. Da buon italiano, accomodante per natura, però, si fermava a metà: si faccia pure poesia ma, nel contempo, si dia un segnale etico inequivocabile che eseguire la Polonaise in La maggiore op. 40 n. 1 di Chopin non significa chiudere gli occhi ai massacri che avvengono nel mondo. Se Arturo Benedetti Michelangeli, che aveva fama di uomo di destra (non so se a ragione o a torto), avesse premesso a un suo concerto un comunicato in cui si denunciavano i crimini dei khmer rossi e di Pol Pot, il Pollini degli anni 70 avrebbe sottoscritto?
Il secondo vulnus non era meno grave. Tra gli ascoltatori del Conservatorio di Milano c’erano molti ‘moderati’ che, pur perplessi sulla guerra del Vietnam (proseguita con ostinazione, tra l’altro, dal Presidente U.S. più a sinistra del Novecento, Lyndon Johnson), avevano acquistato il biglietto per ascoltare i concerti di Chopin non gli anatemi di Joan Baez. In realtà, nella decisione di leggere il comunicato in questione (una lettura che non venne portata a termine giacché Pollini, fischiato e contestato, dovette rinunciare sia alla lettura che al concerto) si manifestava l’eterna tentazione totalitaria degli intellettuali italiani. E’ una sindrome che si fonda sul convincimento incrollabile che certe ‘verità’ – il crimine rappresentato dalla guerra al Vietnam del Nord – sono autoevidenti e chi non le riconosce è in mala fede. Imporle e ricordarle, pertanto, è lecito con ogni mezzo, e non è affatto scorretto, ‘a fini umanitari’, approfittare di una cattedra universitaria o di un palcoscenico teatrale, sui quali non potranno salire quanti sono di ‘diverso parere’ e quindi sono condannati a sorbirsi l’indottrinamento senza poter ribattere.
E qui veniamo alla strana idea di eguaglianza che hanno, in Italia, quanti si richiamano alla democrazia. Per loro, utilizzare risorse e prestigio acquisiti in un campo per farsi valere in un altro, è più che normale (a meno che non si tratti di imprenditori prestati alla politica..): se uno è un grande chimico, è autorizzato a dire la sua sugli errori tattici e strategici dell’allenatore della Juventus, se è un prestigioso storico della cavalleria medievale non disdegnerà una tribuna giornalistica o televisiva in cui gli si consenta di attribuire ai servizi segreti israeliani l’attentato alle Twin Towers.
L’idea che, in tutto ciò che non riguarda le nostre competenze professionali specifiche, la nostra ‘autorità intellettuale’ è eguale a quella di qualsiasi altro nostro concittadino (giornalaio o musicista che sia) non ci sfiora neppure. Se siamo esecutori inarrivabili di Chopin perché non dovremmo dire quel che pensiamo di McNamara o del generale Giap?
 Ipse dixit! Pollini ci tenne a far sapere come, a suo avviso, andava giudicato l’intervento americano in Vietnam. Sarebbe stata ineccepibile la sua ‘espressione di sentimento’ se si fosse manifestata alla Fondazione Gramsci o al Circolo De Amicis o alla Società Umanitaria, nel corso di un dibattito pubblico e aperto o anche se, per assurdo, dopo la lettura del comunicato fosse stato rivolto un invito ai dissenzienti in sala di salire sul palcoscenico e di leggerne uno alternativo. La via da lui scelta, invece, fu quella – non c’è altro termine – della prepotenza e del «quia sum leo»: il microfono ce l’ho io e vi dico quello che penso, se il messaggio arriverà agli spettatori come un pugno nello stomaco, tanto peggio per loro.
Sinceramente non vedo proprio ragioni di gratitudine ‘ulteriori’ a quelle che hanno reso meritatamente celebre il nome di Maurizio Pollini nel mondo per le sue straordinarie esecuzioni chopiniane e che hanno portato un grandissimo violinista, come Salvatore Accardo, a scrivere che «il fraseggio virtuosistico di Pollini non è fine a se stesso, ma ha l’obiettivo di fare apprezzare non la bravura dell’esecutore, ma la bellezza della partitura».