Dialoghetto di un parroco toscano e di un suo parrocchiano sulla paternità

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Dialoghetto di un parroco toscano e di un suo parrocchiano sulla paternità

16 Luglio 2007

Parrocchiano –  Don Alberto! Don Alberto!

Don Alberto –  …. Ah! Ciao! Non t’avevo visto….

P. –  
Ho interrotto i suoi pensieri? Camminava come trasognato…

D.A. – 
Succede sempre quando esco dalla casa di Dario e della Betta.

P. – 
Come sta Giacomo?

D.A. – 
Come vuoi che stia? Vedere un ragazzo di diciott’anni in quello stato,
su una sedia a rotelle, completamente perso nelle membra quasi fin dalla
nascita…

P. – 
E’ una vicenda che mi sta sempre fissa nel capo e le confesso che, tutte
le volte che li incontro, non so bene cosa fare e cosa dire. Ma quello che più
mi colpisce è l’amore assoluto che quei genitori  hanno per lui.

D.A. –  
La loro vita ne è rimasta segnata. Lei ha smesso di lavorare, il padre è
venuto presto in pensione. Passa le giornate a cercare le sedie che meglio
possano sostenerlo, bussa  a tutte le
porte, si informa sulle prospettive di cura e – tutto questo – senza speranza:
sanno benissimo che, nella migliore delle ipotesi, tutto resterà com’è adesso.

P. –  
Ho spesso pensato a loro l’altro giorno, mentre leggevo un libretto…

D.A. –  Scusa la franchezza, ma sei proprio una
persona libresca! Che te ne fai dei libri di fronte a situazioni di questo
genere? C’è qualcuno che ha proposto di inchiodarli tutti, i libri.

P. – 
No, non sono d’accordo. Ci sono libri e libri. E poi dipende da come si
leggono e da cosa ci si cerca dentro…

D.A. – 
A quale ti riferivi?

P.– Alla Giornata d’uno scrutatore di Italo Calvino.

D.A. –  
Ma è un libro vecchio!

P. – 
Del 1963. Non leggo mai i libri via via che escono: li faccio
invecchiare, come si fa col vino. Calvino – lo saprà – era un super-laico,
figlio di due scienziati ed educato nel libero pensiero. Dopo la guerra divenne
comunista, ma, quando i russi invasero l’Ungheria, fu dei tanti che uscì dal
partito…

 

D.A. – Va bene…ora non farmi la lezione.
Ma cosa c’entrano le elezioni e la politica con la situazione di Giacomo?

P. –   
Aspetti… Calvino racconta una domenica elettorale (quella della legge
truffa del 1953). Amerigo Ormea (cioè lui stesso) fa lo scrutatore in un seggio
torinese, all’interno del Cottolengo. Elettoralmente si tratta d’una trincea: i
religiosi dell’istituto erano accusati di far votare  tutti i ricoverati, anche quelli
completamente incapaci di intendere e di volere, e di farli votare, naturalmente,
per la DC.

D.A. – 
Era vero?

P. – 
In gran parte sì, ma non è questo il problema del romanzo. Ormea è un
intellettuale comunista, uno storicista, tutto avvinto alla tradizione
illuministica: per lui, il senso dell’esistenza 
(l’unico senso!) è quello di operare nella storia, di agire per un mondo
migliore. Il comunismo risolverà tutti i problemi dell’uomo, non solo di natura
economica, ma anche quelli esistenziali. Ma nel Cottolengo si trova di fronte a
gente che vegeta in un letto, sotto lenzuola che coprono un corpo deforme, o che
vive con lo sguardo fisso, mostrando un’espressione diversa solo per la suora
che gli porta da mangiare e gli cura le piaghe. Dal suo punto di vista, tutte
queste esistenze (sono centinaia) non hanno senso, come non ne hanno quelle
delle religiose che dedicano la vita ad accudire uomini-pesce, giganti con
smisurate teste di neonato, esseri con minuscole facce rosse, tutti occhi e
bocche aperte in un fermo riso… Per persone così, anche l’avvento del
comunismo, cosa potrebbe significare? Che soluzione potrebbe dare?

D.A. – 
Ma come? Non ne prova nemmeno pietà?

P.– 
Certo che ne prova… e ben presto il problema politico passa in secondo
piano. Avverte intimamente che è impossibile negare un senso a quelle vite, ma
in base a che cosa, questo non riesce a capirlo. Tornato a casa per il pranzo,
cerca una soluzione fra i libri della sua biblioteca (vede! di nuovo i famosi
libri!): prende i Manoscritti
giovanili di Marx, ne legge alcuni brani, ha l’impressione che tutto finalmente
torni, ma, al Cottolengo il quadro si complica di nuovo.

D.A. –    Dario e la Betta non hanno dubbi sul senso dell’esistenza di
Giacomo: avvertono che questo figlio  è
loro, che gli è stato dato così, che come e più di ogni altro è degno d’amore:
insomma, che è tutta la loro vita.

P. – 
Anche Amerigo Ormea afferra qualcosa della paternità (di questo si
tratta) di fronte alla scena che gli si presenta in una camerata: un lungo,
muto colloquio fra un ragazzo deficiente e rattrappito nei movimenti e un
vecchio contadino vestito a festa (il padre) che gli passa lentamente, una dopo
l’altra, delle mandorle sgusciate e lo guarda mangiare. Tutte le domeniche – lo
scrutatore lo avverte – il vecchio si cambia, prende il tram o il treno, viene
a Torino, per vedere il figlio mangiare, lentamente e in silenzio, quello che
lui gli dà.

D.A. –    Questo romanzo me lo devo procurare…

P. –  
Sa, però, cosa mi ha colpito di più? Che a Calvino –  eccetto che in un momento, che subito passa –
non viene mai in mente che quegli individui forse sarebbe meglio non farli
nascere o, se nati, non farli più soffrire. La conquista vera (forse non
definitiva, ma, certo, lì per lì viva) che Amerigo fa in quella domenica
elettorale è la percezione della datità
della vita…

D.A. – 
Ora non metterti a parlare difficile…

P. –  
Insomma che quegli esseri, come tutti gli altri, vengono al mondo, ci
sono, e sono come noi: le loro piaghe, le loro deformità sono in tutti, solo
che loro le hanno più evidenti. E che un padre (e ogni uomo lo è, per certi
versi) li deve prendere così come sono.

D.A. – 
Anche nostro Signore è padre e ci prende e ci vuol bene così come siamo.
Staremmo freschi se facesse delle differenze…

P.– 
Ma Italo Calvino era un super-laico! La lettura di questo romanzo mi ha
mosso una domanda: cosa è successo in questi ultimi cinquant’anni? Come mai le
idee a cui arriva Amerigo Ormea sono praticamente scomparse dal mondo laico, da
quello dei media o della letteratura corrente? Ormea, alla fine, riesce, non
dico a spiegarsi, ma ad avvertire le ragioni del Cottolengo. Come mai oggi, fra
gli intellettuali e i giornalisti che vanno per la maggiore, nessuno le
comprende più?

 

D.A. –  
Guarda che è difficile anche per noi. Ti voglio spiegare come ci sono
arrivato io. Tutte le domeniche, lo sai, Dario e la Betta portano Giacomo, sulla
sua sedia ortopedica, alla messa. Il ragazzo smania, fa rumore, richiama
l’attenzione degli altri. Ma c’è un momento in cui, invariabilmente, si mette a
urlare: quando, al momento della consacrazione, sente il suono della
campanella. Allora nel silenzio assoluto della chiesa, si alzano i suoi urli,
sordi come rantoli. Le prime volte – te lo confesso – la cosa mi imbarazzava e,
quasi, m’infastidiva. Ma un giorno, ho avuto come un’illuminazione: ecco – mi
sono detto – così doveva urlar dalla croce, nostro Signor Gesù Cristo! E, da
allora, prima di chinarmi sull’ostia consacrata, aspetto, come un segnale e un
accompagnamento, le urla di Giacomo.