Dietro la crisi economica mondiale c’è lo spettro del disagio della modernità

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Dietro la crisi economica mondiale c’è lo spettro del disagio della modernità

Dietro la crisi economica mondiale c’è lo spettro del disagio della modernità

05 Febbraio 2012

La crisi economica e finanziaria globale che attraversiamo in questi ultimi anni nasconde un disagio della modernità – per riecheggiare il titolo di un vecchio saggio del 1991 del filosofo della politica Charles Taylor – più radicato e profondo, che sembra sfuggire talvolta alle previsioni e alle analisi di economisti e intellettuali di turno, perché non restringibile alle sue sole appendici economiche e politiche con i loro travagli e le loro rispettive conflittualità.

Nell’eclissi della politica che sembra peraltro caratterizzare l’attuale frangente storico, l’unica istanza istituzionale ed etica che di tale disagio nella sua reale portata sembra farsi carico è la Chiesa, che a più riprese per esempio è tornata a rimarcare come la crisi economica e finanziaria odierna in ultima analisi si fondi su una più vasta crisi etica che minaccia il Vecchio Continente, sulla crisi dei valori cristiani, e degli ideali umani ancor prima, sul nichilismo, sul relativismo etico, sul prevalere degli interessi individuali e dell’egoismo sopra il bene comune ed i valori di solidarietà e di universalità.

D’altronde è proprio con “la morte di Dio”, ed anche con i meno infausti decessi dei suoi surrogati novecenteschi, déi nuovi secolari e storpiati, le ideologie totalitarie comuniste e fasciste, che i regimi liberali e democratici del mondo avanzato appaiono arenarsi ora in un “deserto” di leopardiana memoria. “O la immaginazione tornerà in vigore, e le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad esser cosa viva e non morta, e la grandezza e la bellezza delle cose torneranno a parere una sostanza, e la religione riacquisterà il suo credito; o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto” scriveva il recanatese in un lontano 1820. Questo vuoto interiore ed esteriore, questo niente, che si espande dentro e fuori di noi, livellando peraltro la pluralità delle identità culturali, delle nazioni e degli Stati, sembra dilatarsi inghiottendo e nutrendosi via via di tutto ciò che incontra per strada, a somiglianza di quel “Nulla” personificato, in quel vecchio film degli anni Ottanta, The Neverending story, che come un oceano vasto e nero andava travolgendo e ingurgitando intere città e montagne, uomini e cose.  Il villaggio globale rischia di sgretolarsi su questo “deserto” globale che gli si pone a fondamento,  mentre nell’Occidente liberale e democratico sono gli stessi supremi valori della libertà individuale, della laicità, della razionalità che lo hanno fondato e permeato che sembrano ora ritorceglisi contro.

La vecchia “ragione” degli illuministi, che segnò l’uscita dell’uomo dallo “stato di minorità” secondo le parole di Immanuel Kant, si è convertita nella ragione strumentale, risultato anche del processo di secolarizzazione e del weberiano disincatamento del mondo, una ratio fondata esclusivamente sul calcolo e sull’utile, sulle mere logiche economiche, e il cui dominio assoluto sembra oramai voler ricacciare l’uomo in uno stato di minorità rinnovato e anche peggiore, perché proiettato potenzialmente, non più nel contesto passato o mitologico  dello “stato di natura” abitato da un uomo incosciente e trepidante davanti all’oscurità dell’universo, ma verso quello futuro e distopico di uno spaventoso dominio di un potere rigidamente centralizzato e burocratizzato sull’individuo asservito e alienato. 

Ma lungi da noi queste immagini forse troppo future, certo è che oggi la “ragione” non si incarna in nuove visioni articolate e coerenti del domani, in una ri-significazione del “progresso”, o semplicemente nella fondazione di significati nuovi dell’uomo e del mondo. Vi è piuttosto il primato di una razionalità strumentale, che ben si vede nell’attualità, nel prevalere della “tecnocrazia”, nella fede cieca ed esclusiva che la risoluzione della crisi globale dipenda soltanto dagli aggiustamento di conti nella ragioneria degli Stati e dal riassorbimento dei debiti sovrani, da nuove politiche per la crescita economica e del lavoro, dai controlli degli Stati e degli organismi sovrannazionali sulle transazioni finanziarie internazionali. In realtà il problema non è soltanto come fare ripartire la macchina economica che si è guastata e come tornare a farla di nuovo “funzionare”. Non possiamo più esimerci dall’interrogarci sul senso stesso, sul significato, della macchina.

Non l’individuo e la sua libertà, ma i simulacri dell’uno e dell’altra sono d’altra parte i portatori della ragione strumentale. Dov’è l’individuo padrone del proprio destino, robusto, emancipato, libero di mettersi sulla sua personale strada della felicità, come vorrebbe la Costituzione americana, e come nell’Ottocento immaginava John Stuart Mill? Questi nel suo saggio On liberty aveva elogiato la capacità e la virtù degli individui di rivendicare la propria libertà e l’originalità del proprio io, che deve poter crescere ramificandosi, come un albero, in mille direzioni, scriveva. Con un senso molto più ampio e non riconducibile alla mera libertà economica, Mill affermava che ciascun uomo deve essere libero di perseguire la felicità secondo la strada che egli ritiene più buona per sé. “La grandezza di uno Stato si misura dalla grandezza degli individui che lo compongono” affermava.  

Ma oggi l’uomo sembra più quello tristemente prefigurato nello stesso secolo XIX da Alexis de Tocqueville, in una pagina profetica della Démocratie en Amérique: “vedo una folla innumerevole di uomini simili ed eguali, che incessantemente si ripiegano su se stessi per procurarsi piccoli e volgari piaceri, di cui riempiono la loro anima. Ognuno di essi, ritirato in disparte, è come estraneo al destino di tutti gli altri, i suoi figli ed i suoi amici personali formano per lui tutta la specie umana”. Al di sopra di questi uomini, ripiegati in se stessi, chiusi “dans la solitude de son propre coeur”, in cui l’individualismo si è convertito nell’egoismo, Tocqueville immaginava stagliarsi un immenso potere tutelare, “assoluto, capillare, regolare, previdente e dolce”. “Assomiglierebbe al potere paterno se, come quello avesse per fine di preparare gli uomini all’età virile; ma, al contrario, non cerca che di fissarli irrevocabilmente all’infanzia; gli piace che i cittadini siano contenti, a condizione che pensino soltanto ad essere contenti. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente ed il loro arbitro, provvede alla loro sicurezza, prevede e assicura la soddisfazione dei loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduce i loro affari principali, dirige la loro attività, regola le loro successioni, divide le loro eredità; perché mai non può toglier loro interamente la fatica di pensare e la pena di vivere?”

Di qui, e da ultimo, viene forse il maggiore dai mali profondi della contemporaneità: la perdita della “libertà politica”, della libertà come partecipazione, anzitutto attraverso l’esercizio del voto, attivo e passivo, ma non solo. Di questa perdita siamo, in parte, ciascuno di noi, colpevoli. Perché abbiamo spesso consapevolmente rinunciato a partecipare alla cosa pubblica, delegando ad altri le nostre responsabilità, preferendo gli affari privati e domestici al bene comune, difendendo ciascuno i diritti e gli affari di parte, di fazione, di categoria e non interessandoci dell’insieme della società. “Il rischio della moderna libertà”, osservava già Benjamin Constant ne La liberté des Anciens comparée à celle des Modernes, è che, “assorbiti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguimento dei nostri interessi particolari, rinunciamo con troppa facilità al nostro diritto di partecipazione al potere politico”.  Ancora Constant osservava d’altra parte che la libertà politica è poco praticata dai “moderni” a causa di logiche stringenti che si sono affermate nel mondo moderno: per esempio il commercio, che pervade capillarmente la vita delle nazioni, non lascia, come la guerra, intervalli d’inattività: gli individui preferiscono dedicarsi alle speculazioni economiche piuttosto che alla discussione politica. Inoltre, maggiore è l’estensione di uno stato, minore diviene tendenzialmente l’importanza politica del singolo cittadino.

E’, infine, proprio per quest’ultimo aspetto, per il rimpicciolimento dell’uomo davanti ad organismi di potere sempre più estesi e transnazionali, che diventerà sempre più urgente, nel prossimo futuro, rivendicare il valore dell’autodeterminazione politica, degli individui e dei popoli. Se la libertà di noi “moderni” è soprattutto costituita dalla libertà del mercato e dei privati nel mercato, e dall’insieme delle libertà civili nei secoli conquistate, è infatti vero che è dalla libertà politica che passa la difesa e la garanzia delle stesse libertà individuali.