Dietro l’inno di Mameli ci sono gli ideali e le radici di tutti noi italiani

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Dietro l’inno di Mameli ci sono gli ideali e le radici di tutti noi italiani

26 Marzo 2010

Che gli italiani conoscano poco il loro inno nazionale è un fatto acclarato. Ma ancor più certo è che non conservino pressoché memoria delle vicende di chi compose quel canto. Eppure la vita di Goffredo Mameli, brevissima e al contempo densa e travagliata, rappresenta un percorso biografico rivelatore di un’epoca, il Risorgimento, al quale forse dovremmo guardare con maggior attenzione, non solo per rispolverare la storia patria, ma, soprattutto, perché scopriremmo che i suoi eroi, le idee che li animanivano, le azioni che essi compirono avrebbero da insegnarci ancora qualcosa.

La vita di Mameli venne improvvisamente stroncata a neppure 22 anni, nel 1849, sulle barricate in difesa della Repubblica romana. Il giovane genovese, figlio di un militare del Regno sardo e dell’erede di un’antica famiglia aristocratica ligure, prese a frequentare nel 1846 i circoli mazziniani cittadini entrando da subito in contatto con Nino Bixio ed impegnandosi pienamente per la causa italiana. Le sue vicende "eroiche" si esaurirono nello spazio di un paio d’anni: dalle celebrazioni del Balilla il 10 dicembre 1847, in memoria della rivolta di 101 anni prima con la quale i genovesi si erano scagliati contro gli austriaci, evento di forte rilevanza simbolica nell’epoca del lombardo-veneto asburgico, fino all’entusiasmo provato per gli statuti del gennaio-marzo 1848, cui seguirono le giornate milanesi, la delusione per l’armistizio sabaudo e infine le vane speranze create dalla Repubblica romana.

Una biografia – ha scritto David Bidussa – "contemporaneamente esemplare ma anche canonica". E non solo perché "la storia italiana è piena di figure che nella parabola di una breve stagione consumano la loro vita e allo stesso tempo rimangono come icone senza storia e senza fisionomia", ma anche perché furono molti i giovani che in quegli anni, sedotti dall’eroe dei due mondi o dalla possibilità di dar vita ad una nazione indipendente e libera, scelsero di sporcarsi le mani, di agire in prima persona. Messaggio, questo, che emerge continuamente dagli scritti mameliani ora in parte raccolti grazie a Bidussa (G. Mameli, Fratelli d’Italia. Pagine politiche, Feltrinelli, pp. 120, euro 6,50): "Fratelli – egli incitava – affilate le vostre spade, caricate i vostri fucili perché siamo alla vigilia della battaglia".

Fedele ai principi democratici, egli era convinto che l’insurrezione dovesse provenire dal basso e che "l’indipendenza si conquisterà sotto alla bandiera del Popolo". Primo proposito era quello di cacciare lo straniero dal suolo patrio; solo successivamente si sarebbe potuta eleggere la Costituente, essenza della rappresentanza nazionale, espressione della sovranità popolare e "solo, unico legale potere competente a fissare le sorti della nazione". Ben consapevole che abbracciare la bandiera repubblicana prima di aver espulso gli austriaci dal territorio nazionale avrebbe potuto scatenare una guerra civile, egli era convinto che il conflitto politico andasse "legalizzato" e rimandato appunto alla proclamazione dell’assemblea costituente. Da democratico e repubblicano, Mameli aspirava ovviamente alla cacciata dei sovrani, ritenuti autocrati e reazionari, giudizio che riguardava anche i Savoia, rei dell’armistizio con gli austriaci: "Nemico nostro è il governo di Napoli, ma più tremendo nemico, perché vestito di sembianze amichevoli, è quel di Torino".

Ad ostacolare il compimento dell’unità nazionale non vi era però solamente l’imperatore austriaco ma anche il Papa, quel Pio IX inizialmente salutato come un pontefice in grado di infondere un nuovo corso alla politica vaticana, aperto a istanze liberali e modernizzatrici alle quali avrebbe ben presto voltato le spalle. Negli scritti di Mameli non emerge uno spirito persecutorio nei confronti del cattolicesimo ma piuttosto la volontà di rimettere la potestà temporale della Chiesa nelle mani dei cittadini. Ribadendo che "noi siamo cristiani e repubblicani", l’autore del Canto degli Italiani era convinto la democrazia non fosse altro che una riaffermazione dei princìpi cristiani.

Princìpi che le recenti rivoluzioni avevano tenuto a mente: mentre quella giacobina del 1793 aveva "pubblicamente manomessa l’immagine del Cristo, nel ’48 la Repubblica s’iniziò in Francia sotto l’immagine del Crocifisso", e questo perché "la rivoluzione del ’48 è invece opera di vita e di creazione" grazie alla quale si andava inaugurando una nuova era che "accrescendole delle rivelazioni del presente, rispetta e conserva tutte le verità del passato".