Dimenticare Kyoto. Sul clima Bush cambia strategia
13 Agosto 2007
Ma George Bush si è pentito? L’idea che il presidente americano abbia cambiato idea rispetto alla sua fino-ad-ora inflessibile opposizione al protocollo di Kyoto comincia a farsi strada. Spia della conversione sarebbero non solo i sempre più frequenti riferimenti al tema del riscaldamento globale nei suoi interventi pubblici, ma anche il lancio di una grande conferenza sul clima con una quindicina di paesi i prossimi 27-28 settembre. Tra gli invitati, oltre ai quattro maggiori paesi europei (Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna), Giappone, Cina, Canada, India, Brasile, Corea del Sud, Messico, Russia, Australia, Indonesia e Sud Africa, oltre che il presidente di turno dell’Unione Europea e il segretario generale dell’Onu.
Il disegno di Bush segue tre direttrici, in parte contrastanti. Due di esse perseguono obiettivi di breve termine: nell’ultimo scorcio del suo mandato, l’inquilino della Casa Bianca intende dare una rimboccatina alla sua immagine che, sul piano internazionale, non è brillante. Una pennellata di verde, in queste situazioni, è spesso un’operazione di maquillage efficace e poco costoso. Inoltre, per varie ragioni (sia geopolitiche sia, forse, legate agli interessi convergenti degli agricoltori americani e dei produttori petroliferi nazionali, da sempre insofferenti verso le multinazionali) Bush vuole promuovere – o almeno trasmettere la sensazione di farlo – uno sganciamento dal petrolio mediorientale. Il paravento climatico gli serve ad ammantare tale mossa, tutta pragmatica (e non necessariamente saggia, in prospettiva), di un elevato profilo morale.
Ma Bush punta anche a un altro obiettivo, di lungo termine: sferrare il colpo mortale a Kyoto e all’Onu, utilizzando le medesime armi della propaganda ecologista che per anni sono state impiegate contro di lui. L’iniziativa di settembre è, infatti, la naturale estensione dei principi sottostanti alla Asia Pacific Partnership, l’alleanza promossa dagli Usa con lo scopo di incoraggiare il trasferimento tecnologico e la riduzione delle emissioni nelle economie emergenti in misura economicamente efficiente. Convocando in un’unica stanza i rappresentanti di quelli che sono destinati a diventare i maggiori emettitori di gas serra (India e Cina, ma anche Brasile, Russia, e gli altri paesi in via di sviluppo) e i fautori delle politiche climatiche più rigorose (od ottuse, a seconda dei punti di vista), cioè gli europei, Washington compie una straordinaria prova di forza. Intende dimostrare che può fare il mestiere dell’Onu, meglio dell’Onu, senza bisogno della regia dell’Onu.
Come ha notato Francesco Ranci su Quotidiano Energia, “La Casa Bianca ha definito ‘complementare’ la propria iniziativa rispetto al dibattito in corso all’Onu, ma essa può anche apparire, e di fatto appare, come un tentativo di far saltare i tempi. Tenendo presente anche la differenza delle impostazioni, che la stessa lettera sostanzialmente conferma parlando di ‘obiettivi di medio termine fissati dai singoli Stati’ e di ‘stretta collaborazione con il settore privato per lo sviluppo di tecnologie pulite’ (leggi nucleare?)”.
Cosa uscirà dal meeting? Prevedibilmente, nulla, se non una dichiarazione di intenti piena dei consueti roboanti giri di parole attorno al niente. Obiettivo del vertice, d’altronde, non è certo quello di lanciare un nuovo trattato sul clima. Piuttosto, Bush guarda oltre. Per un verso, appunto, mira a chiudere il braccio di ferro con l’Onu – che, in tanti anni di negoziato, non ha ottenuto granché. Per l’altro, a mettere in moto un processo (certamente non sgradito ai cinesi, per esempio) che obblighi il prossimo presidente, repubblicano o democratico, a mantenere aperto un canale multilaterale sul clima. Cioè, a stare alla larga dai pericolosi (e inutili) balzi in avanti all’europea.