Dimmi che opinione pubblica hai e ti dirò che democrazia sei

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Dimmi che opinione pubblica hai e ti dirò che democrazia sei

16 Marzo 2008

Nel volume L’altro potere.
Opinione pubblica e democrazia in America
(Roma, Donzelli, 2008) Giovanna
Cavallari e Giovanni Dessì affrontano un tema bello e importante: il ruolo
dell’opinione pubblica nelle democrazie. In particolare, ne ricostruiscono gli
interpreti in quella linea di pensiero politico americano che va da John Dewey fino
a Robert Dahl, della quale gli autori riconoscono la specificità proprio nel
fare della democrazia l’oggetto principale di riflessione. Ci interessa questa
riflessione? E’ senz’altro, per noi che viviamo in quelle che sono state
definite “post-democrazie”,  uno degli
argomenti centrali della nostra vita di cittadini: l’esistenza di una opinione
pubblica robusta e libera è infatti legata a nodo doppio con la democrazia.

E’ solo nei regimi democratici che l’opinione pubblica acquista un ruolo
fondamentale e un peso decisivo nella vita politica: il costituirsi di una zona
nella società dove le opinioni di tutti si confrontano liberamente ed
esercitano una influenza sul governo si ha con le democrazie contemporanee.
Dalle stesse circostanze che rendono l’opinione pubblica decisiva in democrazia
nascono anche i problemi che la affliggono, la distorcono, la snaturano. La
critica che il mondo antico rivolge alla democrazia non tiene conto di questo
aspetto della questione e mira invece a sottolineare che la scelta democratica
ha come effetto l’annullamento dell’eccellenza e il governo da parte dei
mediocri oppure il prevalere delle passioni incontrollate. Quando le democrazie
divengono reali, nel corso dell’Ottocento, emergono subito anche i loro
paradossi, i loro difetti, le loro mancanze. Alexis de Tocqueville è tra i
primi a denunciarli, insieme all’individuazione nella democrazia del destino
ineluttabile che attende l’Europa sulla scia degli Stati Uniti d’America:
l’effetto negativo della democrazia è a suo parere il livellamento di tutti con
tutti. L’uguaglianza delle condizioni crea un ambiente nel quale le punte
scompaiono e vengono riassorbite dalla media. In quell’ambiente prende piede
una condizione d’animo materialista che rende estremamente difficile la nascita
e l’affermarsi degli intellettuali e delle idee. John Stuart Mill riprende le
tesi di Tocqueville e punta il dito su una caratteristica dell’opinione
democratica sulla quale già l’amico francese aveva attirato l’attenzione:
quell’unanimismo che toglie libertà e indipendenza di giudizio agli individui.
Per Mill il “dispotismo della maggioranza” contrasta con quella che dovrebbe
essere la caratteristica principale di un sistema politico libero: la mancanza
di impedimenti all’espressione del singolo, la sua indipendenza di giudizio,
l’originalità dei suoi pensieri (oltre che delle sue scelte di vita).

Quando Dewey e gli altri pensatori americani iniziano la loro
riflessione sulla democrazia, hanno alle spalle questo retroterra di
osservazione simpatetica ma anche critica della democrazia, questi giudizi
duri, queste notazioni impietose. Walter Lippmann (altro americano, autore di
un capolavoro tradotto anche in italiano, The
public opinion
, 1922) mette in rilievo un difetto che si situa proprio nella
formazione dell’opinione pubblica democratica e in particolare sul piano
cognitivo: nell’ambito della stessa riflessione che gli studiosi di psicologia
collettiva svolgono in quei decenni sui meccanismi mentali e psicologici propri
della folla, Lippmann si chiede se la conoscenza dell’opinione pubblica sia una
conoscenza veritiera di ciò che accade nell’ambiente circostante. E’ chiaro,
infatti, che solo se il pubblico è in grado di accedere alla conoscenza delle
cose, l’opinione pubblica può esercitare un ruolo positivo nel sistema
politico. La sua risposta è negativa, anche se la fiducia che nutre nella
democrazia non viene travolta completamente da quella risposta: il ricorso a
esperti (in particolare giornalisti formati in modo opportuno) è l’antidoto al
quale la democrazia può ricorrere per non andare alla deriva e prendere
decisioni influenzate solo dalle passioni o dagli stereotipi.

Non sono certa che esista una specificità americana in queste
riflessioni sull’opinione pubblica in democrazia, e la riprova è rappresentata
da un autore come Bertrand Russell. Si dirà che appartiene comunque all’ambiente
culturale anglosassone; ma è pur vero che si tratta di un esponente
aristocratico del Vecchio Mondo, con tutte le prerogative e caratteristiche
(eccentricità compresa) che competono al suo rango. Russell esprime sulla
democrazia le stesse perplessità e lo stesso apprezzamento di un Dewey, di un
Lippmann: osserva che esiste un distacco spaziale, psicologico, intellettuale,
fra rappresentanti e rappresentati, dubita che gli eletti dal suffragio siano i
migliori, non accetta l’opinione pubblica come fonte di giudizi autorevoli,
critica il soffocamento delle differenze individuali sotto l’uniformità di idee
accettate senza discussione. Anche per lui vale la domanda radicale che
Lippmann si pone sulla conoscenza e il comportamento dei protagonisti della
democrazia (le grandi masse di individui): che cosa hanno la possibilità di conoscere?
come sono soliti reagire? Propende per il conformismo del pubblico come
reazione da aspettarsi piuttosto che per lo scoppio di violenza: ma tiene fermo
il carattere tendenzialmente unanime del comportamento, l’irrazionalità, la
scarsa e inaffidabile quantità di conoscenza che riesce a filtrare attraverso
le maglie.

Per Lippmann gli ostacoli alla conoscenza da parte della massa dei
cittadini sono connaturati alla posizione dell’uomo in un mondo troppo grande e
complesso per le sue capacità; per Russell sono legati alla vita in un mondo
talmente allargato spazialmente e talmente pieno di gente da aver reso
indispensabile l’abbandono della democrazia diretta. Per entrambi, sulla scia
degli autori positivisti di fine Ottocento e dei sociologi del primo Novecento,
quegli ostacoli coincidono con le caratteristiche nuove del mondo
idustrializzato, urbano, dagli innumerevoli scambi interpersonali, dalla
comunicazione fitta, dagli organi di informazione moltiplicati: il mondo che
sarebbe diventato il nostro.