Dire che il counter-insurgency non funzioni per vizio di genesi è folle

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Dire che il counter-insurgency non funzioni per vizio di genesi è folle

11 Febbraio 2012

Sul Foglio di venerdì 3 febbraio, Daniele Raineri scrive una ricca recensione del libro di Michael Hastings sulla guerra in Afghanistan dal titolo eloquente “The Operators. The Wild and Terrifying Inside Story of America’s War in Afghanistan”. La tesi dell’autore, che per inciso è quello della famosa intervista su Rolling Stones che costò il posto al generale McCrystal, è chiara. La dottrina di contro insorgenza (coin) elaborata dalla scuola strategica americana (si veda il famoso manuale da campo dei marines e dell’esercito edito nel 2007) è un fallimento, non è solo un disastro in Afghanistan; qualsiasi dottrina simile infatti non può altro che produrre un fallimento via l’altro, a prescindere dai teatri di guerra e dalle potenze impegnate, perché tale dottrina è un prodotto militare segnato da un peccato originale, ideologico politico, perché è una dottrina fascista e non a caso un suo massimo teorico fu quel capitano francese David Galula, amico di Kissinger, protagonista della guerra d’Algeria e autore di due celebri libri dedicati a quella terribile esperienza. E gli strateghi americani, in Medio Oriente ,“ci hanno lasciato con la stessa cornice strategica ispirata ai fallimenti della Francia in Algeria, da una guerra imperiale nelle Filippine, dalla guerra coloniale britannica in Malesia e dall’umiliazione in Vietnam (3 milioni di morti e 58.195 soldati americani uccisi). Nessuno contesta i suoi fautori – sono convinti che funzioni. Il generale McChrystal tiene i libri di Galula sul comodino”.

A me sembrano dichiarazioni sconvolgenti per superficialità e approssimazione. Dico subito che non ho letto il libro, mi devo fermare all’articolo in questione e ad una decina di recensioni su Internet; ho studiato però – scusate la personalizzazione – dalla fatidica data dell’11 settembre i maggiori teorici della coin a partire dal colonnello britannico Callwell, passando da quel capitano David Galula, a Thompson, a Roger Trinquier (qui una rara traduzione in italiano), e poi il soldato antropologo australiano David Kilcullen, John Nagl, Krepinevich, e prima – in un passato lontano -i teorici delle insurrezioni, della rivoluzione comunista, del terrorismo e altri ancora. Quindi posso sostenere che la frase riportata è veramente una bestemmia sul piano militare, politico e storico. Vediamo perché.

Non esistono dottrine militari fasciste comuniste democratiche liberali o altro. Se vogliamo usare metri altri dall’efficacia, uno strumento militare può essere giudicato legale o illegale secondo il diritto di guerra. Sono più buoni i bombardamenti dal cielo che ammazzano alla cieca o gli attacchi all’arma bianca? E’ più morale uccidere con una bomba sganciata da 3000 metri di quota o un attentato suicida in un mercato? Per giudicare e non straparlare esistono solo pochi criteri: innanzitutto il rapporto tra azione militare e scopo politico e, assieme, i criteri legali, e poi la propria coscienza. Altri non esistono. Dire quindi che la guerra coin è un’eredità neocoloniale e fascista è una sonora castroneria.

In secondo luogo, gli esempi storici citati sono completamente diversi l’uno dall’altro, hanno visto coinvolti attori diversi e sono state guerre combattute per motivi altrettanto diversi e che hanno avuto esiti diversi. Da una parte ci sono le sconfitte della Francia in Indocina (1946-1954) e in Algeria (1954-1962), il disastro americano in Vietnam (1960-1975), a cui si potrebbe aggiungere il caso dell’URSS in Afghanistan (1969-1979); dall’altra i casi vittoriosi degli inglesi in Malesia (1948-1960) e degli stessi Stati Uniti nelle Filippine (1899-1902).

Il punto teorico centrale da capire bene è che questo tipo di guerre si differenziano fin da subito dal modello di guerra industriale che nel frattempo nasce con Napoleone, si afferma a livello mondiale con la prima guerra dopo il rodaggio della guerra civile americana e russo-giapponese.  Clausewitz ha ben visto e formalizzato questo idealtipo da un punto di vista strategico e Carl Schmitt da un punto di vista politico: guerra totale contro un nemico assoluto da distruggere e contro cui mobilitare tutte le risorse del paese. In questo caso alla vittoria militare sul campo corrisponde immediatamente una vittoria politica: la guerra finisce con la resa assoluta, fino alla distruzione della società nemica, come dimostra il lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. 

Le guerre coin invece per loro struttura sono completamente asimmetriche per tipologia degli attori, forza dei contendenti, per interessi, per metodi militari impiegati e così via; qui spesso si hanno eserciti di potenze occidentali che combattono all’estero, in territori oltremare, contro forze irregolari che difendono la propria terra e le proprie tradizioni, che utilizzano la guerriglia e il terrorismo. E’ la stessa guerra industriale che porta con se il fenomeno della dialettica insorgenza/contro insorgenza. Clausewitz se ne accorge immediatamente osservando sul nascere il fenomeno della guerra partigiana spagnola, tirolese e russa contro l’esercito di Napoleone. Ed è preciso nell’analisi: nel caso delle guerre limitate il fine politico si differenzia fino a poter non coincidere con l’obiettivo militare e strategico, non solo: alla supremazia strategica della grande potenza la resistenza risponde con il vantaggio tattico.

Ora finchè le potenze occidentali potettero usare tutti gli strumenti a disposizione senza nessun ritegno morale e giuridico (si rilegga la storia d’Italia della lotta al brigantaggio) e arrivarono fino alla distruzione dell’avversario, da un punto di vista militare (non certo politico e morale!) ci furono pochi problemi. L’uccisione di innocenti, le stragi di interi villaggi, l’uso smodato e barbaro della violenza fino a che essa veniva usata lontano da casa, nascosta agli occhi di un’opinione pubblica ancora poco attenta verso i ‘diversi’ per giunta barbari e incivili, era un prezzo che le nazioni civilizzate si potevano permettere di pagare. Ma quando la sensibilità morale cambiò e magari i nemici non erano gli indigeni dell’Africa nera, ma i coloni olandesi del sud Africa, le cose si fecero difficili e i nodi vennero al pettine e iniziò a serpeggiare il dubbio se avesse un senso la conquista di un paese al prezzo della distruzione di popoli che abitavano quelle terre. E così passato il momento della conquista imperiale, la fine della seconda guerra mondiale con la sconfitta del nazifascismo portò l’epoca della decolonizzazione vissuta e gestita da Francia e Inghilterra in modi completamenti diversi.

Per ritornare agli esempi riportati, è vero entrambe combatterono. Parigi per mantenere un impero, la Gran Bretagna per non consegnare la Malesia ai comunisti. L’epoca delle colonie era finita, il consenso internazionale era venuto completamente meno, USA e Russia erano assolutamente contrarie alla conservazione delle colonie, che per di più da un punto di vista economico erano diventate un affare completamente in perdita.

L’unica cosa da fare per gli imperi era tornare a casa, gestendo la ritirata. Quando in Malesia scoppiò la guerriglia fomentata dal Partito comunista formato nella quasi totalità dalla minoranza cinese, la scelta di Londra fu chiara precisa e fattibile: costruire un processo di sganciamento lasciando sul campo un governo democratico filo occidentale. A questo fine politico furono date le gambe militari su cui marciare. Chiusura ermetica delle frontiere in modo da impedire qualsiasi afflusso di aiuti e di infiltrazioni dalla Cina, appoggio totale e incondizionato alle forze democratiche malesi locali, isolamento della popolazione in villaggi rurali sicuri per proteggerla dagli attacchi e rappresaglie dei guerriglieri, costruzione di milizie di autodifesa popolare, riforma della terra a favore dei contadini più svantaggiati, unificazione e coerenza tra metodi militari e civili fino a costituire un comando unificato. In questo caso la coin si indirizzò alla conquista delle “menti e dei cuori” della popolazione, ma niente avrebbe potuto se lo scopo politico non fosse stato chiaro e perseguibile. Certo l’esercito inglese avrebbe anche potuto sbagliare tutto e inimicarsi la popolazione indigena, utilizzando metodi barbari e disumani e quindi entrando completamente in contraddizione con la politica. Quindi in questo ntipo di conflitto due sono i possibili errori che possono anche darsi contemporaneamente: sbagliare il fine politico e utilizzare metodi militari incoerenti e in contraddizione con esso.

Opposto il caso della Francia. Nella guerra indocinese, la potenza imperiale al tramonto, con un istituzioni e società uscite dal secondo conflitto in stato confusionale, non riuscì a costruire nessun progetto politico alternativo ai vietminh, sbagliò anche sul piano militare, si veda Dien Bien Phu, e andò incontro ad una sconfitta che la segnò profondamente. Questa volta una potenza europea non aveva davanti indigeni ignoranti, ma raffinati intellettuali che avevano studiato nelle Università francesi, quadri politici usciti dalle scuole di partito, soldati che si erano fatti le ossa nella lotta contro il Giappone e dietro di loro la Cina di Mao. In poche parole il fine politico oscillò paurosamente tra la volontà di mantenere la colonia e la paura della vittoria comunista – nel romanzo biografico “I centurioni” questo punto è chiarissimo -, inoltre precaria e minoritaria era la leadership indigena filocinese, in maggioranza cattolica. Incominciò anche a manifestarsi un fenomeno agli albori destinato poi a raggiungere la maturità subito dopo, la possibilità da parte dei vietminh di utilizzare come un’arma il consenso internazionale e l’opinione pubblica francese, minando il rapporto tra esercito e popolo, tra esercito e istituzioni. E quindi destinato al fallimento risultò qualsiasi sforzo militare francese e la sconfitta arrivò puntuale.

La guerra d’Algeria fu ancora più complicata. I fatti sono a tutti noti, ma forse merita sottolineare alcuni punti. La solita impreparazione politica della Francia a gestire il processo di decolonizzazione, l’esistenza di un milione di pied noirs, il 10% della popolazione, ostile ad ogni compromesso che rendeva impossibile per un governo debole come quello della Quarta repubblica gestire ogni situazione di sganciamento, l’uso selvaggio dell’arma del terrorismo e dell’eliminazione fisica di ogni avversario politico da parte dell’FLN, la creazione di una vero e proprio partito pro algerino all’interno della popolazione francese, l’isolamento internazionale della Francia, la capacità di muoversi sul piano internazionale dello stesso FLN.

Altri tre punti meritano attenzione e riguardano il comportamento delle Forze Armate: ad un certo punto, davanti alle incertezze della politica, l’esercito credette di combattere un’altra guerra, non contro la guerriglia dei fellah, ma contro il comunismo internazionale e ne era così convinto, si leggano Roger Trinquier o Paul Aussaresses, che provò a muoversi indipendentemente e contro le indicazioni del governo. Contro gli insorti, i francesi adoperarono all’inizio una strategia confusa, poi sempre più precisa di isolamento della guerriglia dalla popolazione e della Algeria dal resto del mondo.

Due scuole di coin qui si confrontarono, quella che pur di raggiungere il fine – la lotta contro il comunismo internazionale- utilizzò ogni mezzo anche illecito come la tortura con il risultato di inimicarsi la maggior parte degli algerini, dell’opinione pubblica mondiale e francese e chi come il capitano Galula provò a praticare e teorizzare una coin che non solo non si inimicasse la popolazione locale, provando invece a farsela amica. L’ultimo punto da sottolineare è che l’esercito francese alla fine della guerra risultò comunque invitto, non avendo mai perso una battaglia, riuscendo a sbaragliare completamente la rete di militanti clandestini, mettendo i capi locali in galera, e riducendo all’esaurimento l’FLN. E questa è la riprova del nove: nelle guerre di questo tipo, non basta vincere sul campo se l’obiettivo politico è impossibile da raggiungere, anzi come la tattica può mettere in discussione la strategia, la politica può negare l’azione militare, perché la forza è una risultante di elementi diversi.

Il Vietnam non fu quindi un’eccezione. Anche qui a fare cilecca fu la chiarezza politica. “Che tipo di guerra gli americani stavano combattendo? Contro il comunismo mondiale o l’ultima guerra di decolonizzazione? Era credibile il loro alleato a Saigon? Gli interessi in gioco erano strategici per l’America?”.

Se la politica non risponde a questi interrogativi, ogni impiego della forza militare risulterà casuale, incoerente, in balia delle circostanze e infatti Washington utilizzò tutte le strategie che aveva a disposizione: coin, truppe speciali, conquista dei cuori e delle menti, bombardamenti aerei a tappeto, napalm, tutto e il contrario di tutto! Ha ancora una volta ragione Clausewitz, il primo compito di un comandante è capire la guerra che sta combattendo. In Vietnam è chiaro che gli Stati Uniti non lo capirono e infatti anche qui si creò lo stesso paradosso dell’Algeria: un esercito mai sconfitto sul campo di battaglia fu costretto a lasciare il paese arrendendosi in modo incondizionato.

Ovvio fu che alla fine di quella tragedia l’esercito, la politica, l’opinione pubblica non ne volesse più sentir parlare né di jungle, di coin, di paesi del terzo mondo, di alleati corrotti da difendere. Ma gettata a mare non fu solo la riflessione sulla coin, ma ogni tipo di intervento che prevedesse il rischio di guerra prolungata e in situazioni ingarbugliate. Questo era la dottrina Weinberger-Powell che infatti stabiliva: che gli Stati Uniti dovevano ricorrere alla guerra solo in ultima istanza e solo se erano in gioco interessi vitali; che potevano farlo solo con un ampio consenso internazionale e interno supportato da un voto esplicito del Congresso; che i fini politici dovevano essere chiari e ben definiti; che la scelta dei mezzi militari più utili per raggiungere quei fini doveva essere lasciata ai militari; che l’uso della forza doveva soverchiare quello dell’avversario. La rivoluzione informatica, la cosidetta RMA che ha in Rumsfeld uno dei maggiori teorici, non farà altro che accelerare questo processo, puntando tutto sulla enorme superiorità logistica e tecnologica che si tradurrà in velocità e potenza di fuoco.

Questo era lo stato delle cose quando arrivò Bin Laden a rovinare i sogni del predominio indiscusso. Gli Stati Uniti si trovarono su due piedi a ricostruire la loro credibilità internazionale, a disegnare una strategia geopolitica e militare per tutto il Grande Medio Oriente e si posero quattro obiettivi che non erano assolutamente omogenei né che stavano sullo stesso piano né per natura né per priorità di interessi: sconfiggere al Qaida, eliminare i governi ostili agli Stati Uniti, sconfiggere il fondamentalismo islamico, far avanzare la democrazia. Fini strategici diversi in contesti politici diversi richiedevano azioni diverse tra di loro, come nemici diversi avrebbero dovuto utilizzare anch’essi strumenti militari diversi.

Non aver capito la complessità, l’essere stati costretti a inventarsi su due piedi una politica globale ha fatto sì che le acque si intorbidissero e che le strategie iniziali non fossero più sufficienti, facendo alzare continuamente la posta, trasformando ogni giorno lo scenario, con il rischio di ricadere nel trabochetto dell’escalation. Prima Bin Laden, poi i talebani, a cui si aggiunsero le tribù nemiche, il Pakistan con l’ISI, la bomba atomica,  il conflitto con l’India, i talebani pashtun. Prima le armi nucleari in Iraq, poi Saddam, poi le stragi dei miliziani del Bath, l’insurrezione scita, e le contro stragi di Al Qaida, e infine tutti contro tutti.

E qui nasce l’ultimo atto della coin, l’invenzione dei Crystal e Petraeus. Il problema è semplice: come si pacifica – attenzione: non come si vince la guerra – un territorio senza ricorrere a mezzi disumani, come si combatte una “guerra tra la gente” senza essere odiati da quella popolazione, senza che il mondo intero gridi contro il bastardo imperialista yankee, senza trasformare i propri soldati in killer psicopatici, senza che i propri concittadini odino li proprio esercito più dei nemici? Come si prende tempo affinchè maturi una soluzione favorevole, in un mondo dove è molto difficile capire chi sono i buoni e chi i cattivi? (nessuno si ricorda che Al Qaida nasce in Arabia? Che l’alleato Pakistan organizza, paga e arma i talebani? Che adesso l’Iraq è quasi un fedele alleato dello scita Iran?).

A questo è servita la coin, a prender tempo senza commettere stupidaggini irreparabili. Non è una dottrina salvifica, non può servire a definire gli obiettivi di una guerra, questo è compito della politica! Se è mancato il “regime change” fino al raggiungimento della democrazia, se il governo di Kabul è corrotto, se i trafficanti di oppio siedono nel parlamento afghano, se l’Iraq è sull’orlo della guerra civile – a meno che Arabia Turchia e Iran trovino un accordo –, se a Bagdad come atto di profonda democrazia si uccidono gli oppositori del capo del governo, se fra un po’ in Iraq non ci sarà più in piedi una chiesa, non è certo colpa o merito di nessuna dottrina militare.

Il passaggio, o ritorno, alla guerra leggera e tecnologica, ai droni e alle forze speciali, non è la sconfitta della coin; vuol dire semplicemente che gli Stati Uniti hanno cambiato il fine della guerra, ora limitata alla sconfitta di Al Qaida e a rendere inoffensivi militarmente, non a sconfiggere né tanto meno eliminare sul piano politico, i talebani.