Direzione Pd: Renzi, il Grande Presente
12 Marzo 2018
di Carlo Mascio
L’aria da resa dei conti c’è tutta. I toni, a parte qualche dovuta eccezione, sono contenuti, come quelli di chi vorrebbe sbottare ma non può farlo perché il morto è ancora lì davanti a tutti. Il copione viene rispettato in pieno: come annunciato, il segretario dimissionario è assente; Orfini legge le stringate dimissioni di Renzi che spiegherà in assemblea le ragioni del suo gesto; Martina sarà il reggente del Pd in questa fase “delicata” fino all’assemblea Dem; e infine la linea: niente Congresso a breve e sul governo niente alleanze “con gli estremisti”. La Direzione del Pd, la prima dopo le dimissioni di Matteo Renzi dalla segreteria, si consuma in questo clima.
Quindi, Renzi completamente fuori dai giochi? Non del tutto. “La segreteria si presenta dimissionaria a questo appuntamento. Ma io credo sia importante che continui a lavorare insieme a me in queste settimane che ci separano dall’Assemblea” dichiara il reggente Martina. Tradotto: in un modo o nell’altro il partito, in questa fase, rimarrà comunque in mano a Renzi e ai suoi uomini. E la sua impronta si vede sulla linea: niente Congresso, niente governo. Linea che il segretario dimissionario, pur non essendo presente in direzione, ha fatto pervenire in mattinata in una intervista (ad orologeria?) al Corriere della sera, dove, tra l’altro, non ha escluso affatto un suo ritorno in scena in prima linea. Per cui, Renzi vuole provare comunque a recitare una parte, anche dietro le quinte, purché non sia completamente fuori.
E le opposizioni, questo, l’hanno capito benissimo: “La collegialità è essenziale, non è una concessione ma un’assunzione di responsabilità. Non capisco però il residuo di classe dirigente precedente, non perché parte di quelli o tutti non possano far parte di un percorso collegiale ma forse per far parte di una fase nuova questa evoluzione sarebbe necessaria” ha detto il ministro Orlando riferendosi alle dichiarazioni di Martina sullo stile collegiale con il quale vorrà portare avanti questa fase e sulla permanenza della segreteria dimissionaria in cabina di regia. Più duro Gianni Cuperlo che, per sgombrare il campo da ogni eventuale riabilitazione renziana (Delrio aveva appena detto “Siamo ancora il secondo partito”) pronuncia senza se e senza ma l’epitafio del renzismo: “La verità è che in questi anni quello che è stato chiamato il ‘renzismo’ è stato un disegno forte. Ma il 4 marzo ha detto una cosa netta e diversa. Che quel disegno è stato sconfitto” perché “non ha convinto una parte larghissima del Paese e dell’elettorato stesso della sinistra. E allora il ricambio necessario di una leadership e una classe dirigente non sono solo il frutto di una percentuale bassa e deludente nelle urne. Sono la risposta dovuta a quel giudizio politico”.
Parole forti che sommate ai fatti consegnano una realtà inconfutabile: la stagione renziana è tramontata definitivamente, nel Pd come nel Paese. E soprattutto velocemente, in quasi 1500 giorni, tanto che lo stesso Renzi rischia di essere derubricato come una “meteora” politica che ha provato a bruciare le tappe finendo poi per bruciare se stesso e anche la sinistra italiana, precipitata al suo minimo storico. Se questo significa che anche in Italia è arrivata l’ora del tramonto anche per un certo modo di fare politica prettamente di sinistra, è tutto da vedere. Di certo, al netto del clima mesto e dell’aria tesa della Direzione Pd di oggi, le premesse per una ripresa non sono le migliori.