Dissidenti per la libertà, la loro battaglia continua
01 Gennaio 2011
Guillermo Farinas, le Damas de blanco, Marisela Escobedo Ruiz, Carlos Carralero, Liu Xiaobo, Jafar Panahi e Abbas Kiarostami. E la lista potrebbe proseguire. Sono loro, i cosiddetti dissidenti, eroi dei tempi moderni. Il 2010 che si è concluso li ha visti protagonisti della cronaca internazionale, grazie ai loro gesti di ordinaria eccezionalità.
Quarantotto anni, psicologo e direttore dell’illegale Cubanacan Press, Guillermo Farinas ha condotto più di venti scioperi della fame, l’ultimo dopo la morte nel febbraio 2010 dell’altro dissidente Orlando Zapata. Con la sua protesta, Farinas ha posto i riflettori sulla sua Cuba, vessata da un regime dittatoriale comunista da oltre 50 anni. Un amore, quello per il proprio paese, che gli è costata la liberta, la tortura, l’isolamento e 11 anni di detenzione. La colpa: contestare il “castrismo”. Il Parlamento europeo ha riconosciuto in Farinas «il candidato più adeguato allo spirito e alla lettera di quello che rappresenta il premio Sakharov»: per questo ha deciso all’unanimità di insignirlo della più alta onorificenza della libertà di coscienza. Farinas non ha mai ritirato il premio.
Le Damas de Blanco sono un gruppo di donne, madri, figlie, sorelle, che con indefesso amore, dignità e coraggio reclamano la liberazione dei loro cari. Gettati nelle carceri cubane da quella triste “primavera nera” del 2003, quando la scure del castrismo li ha relegati nelle profondità delle carceri cubane, gli enterrados vivos sono reclamati dalle loro donne. Con manifestazioni pacifiche, le Damas de blanco impugnano “pericolosi” gladioli bianchi e mostrando le fotografie dei loro cari, ridando un volto a coloro che la dittatura vuole far dimenticare. Mettono al repentaglio la propria vita – perché si sa che il castrismo non accetta alcuna forma di contestazione – per poter avere loro notizie, vederli, parlare con loro. In alcuni casi, avere la restituzione dei loro corpi per una dignitosa sepoltura. Il loro eroismo gli è valso il premio Sakharov nel 2005.
Marisela Escobedo Ruiz è una madre messicana, freddata come un delinquente qualunque, in mezzo alla strada, davanti al palazzo del governo, nello stato messicano di Chihuahua. La sua colpa: chiedere giustizia per la morte della propria figlia sedicenne, Ruby, uccisa, bruciata e poi gettata in una discarica di Ciudad Juarez nel 2008 dal compagno della madre, Sergio Bocanegra, un criminale affiliato alla narco-gang dei Los Zetas. Lui, arrestato un anno dopo, verrà portato in giudizio, confesserà l’omicidio, poi ritratterà. La giustizia messicana lo rimetterà in libertà per insufficienza di prove. Marisela non si è mai arresa: ha protestato, manifestato perché giustizia venisse fatta, sfidando a viso aperto i Narcos e il loro sistema di omertà e terrore, psicologico e fisico. Questa madre coraggio non avrà mai giustizia per sua figlia; forse neanche per se stessa.
C’è chi è costretto a fuggire, per evitare ritorsioni sulla propria famiglia, sui cari, non solo su se stessi. Questa la storia del cubano Carlos Carralero, esule in Italia dal 1995, da sempre attivista per la libertà e la promozione dei diritti umani nella sua patria. È presidente dell’ Unione per le Libertà a Cuba, un’associazione che dal nostro paese denuncia l’oppressione del regime dei Castro e promuove la libertà nell’isola caraibica. Carralero ha dovuto abbandonare la propria terra, evitando una condanna a 10 anni di reclusione, inflittagli dalla magistratura castrista per aver organizzato due manifestazioni pacifiche – gravissimo reato nella Cuba di Fidel Castro. Una vita di lotta, dolore ed esilio. Un karma, un destino, per lui, figlio di attivisti già all’epoca di Batista, che ha deciso di fare della propria vita una missione: ridare voce a quella Cuba, da troppo tempo imbavagliata da una dittatura comunista.
Volti più o meno noti, ma comunque emblemi di una lotta, di un sacro fuoco che li spinge a sfidare, come Davide contro Golia, il gigante della repressione. E così il nobel per la pace 2010 è andato a Liu Xiaobo. Lui, critico letterario e docente di cinese, è da molti anni impegnato nella difesa dei diritti umani nel suo paese, oggi in carcere per aver aderito al movimento “Charta 08” con l’accusa di “incitamento alla sovversione del potere dello stato”. Il terzo a ricevere il Nobel per la pace in regime di detenzione: con lui prima Carl von Ossietzky nel 1935 e Aung San Suu Kyi nel 1991.
Il Kustendorf International Film and Music Festival, che si svolgerà in Serbia questo mese, ha deciso di intitolare la competizione all’iraniano Abbas Kiarostami, regista e poeta che nel “racconto del quotidiano attraverso gli occhi di un bambino” esprime la ragione della sua stessa vita e della sua professione. Un altro regista iraniano a vedersi riconosciuta un’onorificenza per il proprio lavoro, condotto tra le difficoltà della censura del regime degli allatollah, così come avvenne per Jafar Panahi, vincitore di numerosi premi internazionali tra cui l’Orso d’argento a Berlino nel 2006. Oggi, con una condanna a 6 anni di reclusione, è bloccato nella propria abitazione, impossibilitato a “dirigere, scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste sia all’estero che all’interno dell’Iran per 20 anni”: questa la sentenza.
Li chiamano “dissidenti”, perché combattono pacificamente un regime, un oppressore, un sistema che non permette né a loro né al loro popolo di essere liberi, di vivere. Ma in realtà non lo sono. Dissidente è colui che in seno a un gruppo, dissente su qualche punto accettato dalla maggioranza. Qui non c’è una maggioranza. Solo una minoranza dittatoriale – politica, criminale o di altro genere – che impone il proprio volere sui più.