Dollaro/euro, la fine di un ciclo storico

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Dollaro/euro, la fine di un ciclo storico

26 Giugno 2008

 Alla base del dollaro debole, soprattutto la fine di un ciclo storico. Ma l’euro non è in grado di reggere l’architettura globale come ha fatto il dollaro finora.

C’è più di una ragione per cui l’articolo/intervista al premio nobel per l’Economia Mundell andrebbe imparato a memoria. Non tanto e non solo per il personaggio in sé, un autentico profeta munito di calcolatrice e intuito formidabile, capace di prevedere con anticipo di 30/40 anni e – sorprendente per un economista – imbroccarci.

Le considerazioni di Mundell arrivano nel bel mezzo di una potente tensione tra le valute più pesanti in uso sulle due sponde dell’Atlantico: euro e dollaro.

Più in dettaglio, l’eurozona sta pagando in pieno il costo del riaggiustamento finanziario globale. Non si tratta solo di un problema di contingenza, legata alla congiuntura economica particolare, ma di una vera e propria inversione di un ciclo storico.

Un ciclo, quello conclusosi un decennio circa dopo la fine della Guerra Fredda, che aveva negli Stati Uniti d’America il vero “motore” dell’alleanza occidentale.

E, economicamente, il “motore” gestiva la coesione occidentale con un criterio opposto a quello di reciprocità e simmetria: asimmetria a go go.

Per interi decenni, l’America concesse ai propri partner di esportare beni, inondando il suo mercato domestico senza chiedere in cambio reciprocità, salvo che su un numero relativamente circoscritto di aree.

In questa maniera gli alleati divennero esportatori mantenendo allo stesso tempo il protezionismo interno. Un esempio? Giappone e Germania, anche nei tempi di scarseggiante domanda interna, riuscirono a bilanciare con più export le fasi di magra.

La forma del mercato globale è stata dunque forgiata da questa strategia, che mise al centro America e dollaro.

Negli anni ’90 fa tale sistema si protrasse per altri motivi: importazioni a basso costo e delocalizzazione permettevano all’America di “importare disinflazione” e produttività, quindi crescita elevata senza inflazione.

In tale contesto il dollaro doveva restare alto e forte – giacché così favoriva il bilanciamento del deficit commerciale attraverso flussi finanziari di ritorno.

Da qualche anno, però, questo sistema si sta sgretolando per una varietà di motivi tra cui due politici sono i più importanti: (a) il livello di concorrenza globale ormai insostenibile per la classe media americana; (b) la perdita di interesse da parte della classe dirigente USA a sostenere i costi del dollaro forte.

Per questo, e non solo per motivi di cultura gestionale e tecnici, l’Amministrazione Bush è ricorsa al dollaro debole per aggiustare i propri problemi.

Se questa inversione sarà prolungata, l’euro cadrà nella trappola del cambio decompetitivo  in quanto Cina e Giappone non vorranno rivalutare le loro monete e la Bce alza l’euro. Ma questo non è retto da solo da un modello economico sottostante talmente efficiente da fargli reggere il ruolo di moneta mondiale – la “global currency” di cui parla Mundell, per l’appunto.

Se poi lo diventasse, l’Europa andrebbe in depressione per la mazzata alle proprie esportazioni, l’Asia anche e l’America soffrirà. I mandarini della Bce sono in trappola e seguitano a invocare il ritorno al dollaro forte.

Cosa fare? Una “Bretton Woods” a livello di G7 (o G7 espanso se avranno voce in capitolo anche Brasile, Cina, India, Sud Africa) per riequilibrare i cambi non sarà comunque avviata senza il nuovo presidente USA. Senza contare che l’orizzonte temporale per una soluzione di questo tipo è lungo (trent’anni o giù di lì) anche secondo Mundell.

Nel breve termine, solo eventi finanziari molto pesanti calamiterebbero l’attenzione sul dollaro. Quali? Poderosi rimescolamenti bancari euro-americani, per esempio. Occhi puntati sulla rete di Citigroup in vendita in Germania, non è detto che non ne esca qualcosa di interessante.