Dollaro o euro? Iran e Venezuela spaccano l’Opec
09 Maggio 2008
I prezzi del petrolio scombussolano le economie mondiali, ma scombussolano ormai anche l’Opec: l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio nata nel 1960 dall’intesa tra Venezuela, Arabia Saudita, Iran, Iraq e Kuwait.
Nel 1961 si aggiunse il Qatar, nel 1962 l’Indonesia e la Libia, nel 1967 gli Emirati Arabi Uniti, nel 1969 l’Algeria, nel 1971 la Nigeria, e nel 1973 l’Opec divenne una sigla nota anche ai cittadini occidentali più indifferenti alla politica internazionale, in seguito ai rialzi vertiginosi dei carburanti dopo la Guerra del Kippur. Era l’epoca in cui per molti mesi i cittadini di vari Paesi europei furono costretti a pedalare in bicicletta durante le domeniche: Italia compresa. Sempre nel 1973 si aggiunse l’Ecuador, e nel 1975 il Gabon. Ma tra 1979 e 1980 la rivoluzione khomeinista e la guerra tra Iran e Iraq portarono a un primo grave scontro all’interno dell’organizzazione, nel 1990-91 ci fu l’altra grave crisi seguita all’invasione irachena del Kuwait, nel 1993 uscì dall’organizzazione l’Ecuador, nel 1995 fu il turno del Gabon, e nel 1998 per il perdurante embargo l’Iraq fu escluso dalle quote, mentre i prezzi crollavano.
Fu Chávez, appena eletto Presidente del Venezuela, a cercare di far rialzare i prezzi attraverso un rilancio dell’organizzazione, ospitando nel
Tuttavia, nei fatti l’Opec non è riuscita neanche a venire a capo della disputa tra quell’asse Venezuela-Iran che vorrebbe sostituire l’euro al dollaro come moneta di riferimento ai prezzi del greggio, e un’Arabia Saudita che si ostina invece a mantenere ancorata alla valuta Usa perfino la propria moneta nazionale. Dunque, l’organizzazione vende in dollari, e l’Iran in euro. E in più la domanda travolge la geopolitica tradizionale del greggio: rendendo competitive risorse fino a poco tempo fa marginali, ma anche prosciugando alcuni dei vecchi fornitori. Il Brasile è ad esempio un Paese con una lunga storia di problemi energetici, che ha cercato infatti di risolvere con una sperimentazione pionieristica dei biocarburanti. Ma negli ultimissimi mesi ha trovato nell’Atlantico una serie di nuovi giacimenti off-shore tali da trasformarlo in una potenza energetica: anche se continua la sua strategia dei biocarburanti, e sta pure per lanciare un nuovo ambizioso programma nucleare. Per questo starebbe comunque pensando di entrare nell’Opec. Un altro effetto dei rincari è la crescente importanza dei giacimenti venezuelani e canadesi di “petrolio pesante”: non liquido, ma misto a sabbia. E di qui anche l’invito al Canada.
Al contrario, l’Indonesia è un vecchio produttore che sta per gettare la spugna. Calato dal milione e mezzo di barili al giorno di produzione di metà degli anni ’90 al meno di un milione di oggi, ormai il Paese non è più un esportatore ma un importatore di petrolio, costretto a tagliare i tradizionali sussidi ai prezzi dei combustibili per evitare problemi di bilancio. E così il suo voto in sede Opec è sempre più in favore della riduzione dei prezzi, piuttosto che in un aumento. Insomma, si è creata una divaricazione di interessi tale che lo stesso Presidente Susilo Bambang Yudhoyono ha ammesso di stare pensando a un ritiro dall’organizzazione. D’altronde, non è il primo grande produttore di petrolio che passa dall’altra parte della barricata. La Romania, ad esempio, che nel 1937 era il secondo produttore europeo e il settimo mondiale, ma dal 1976 la produzione iniziò a cadere, e già negli anni ’80 il Paese era diventato importatore. Curiosamente, durante la Seconda Guerra Mondiale furono proprio Romania e Indonesia i due maggiori fornitori di greggio all’Asse: la Romania, alleata di Hitler, per la Germania; l’Indonesia, le allora Indie Olandesi occupate dall’esercito nipponico, per il Giappone.