Domande scomode sul Risorgimento italiano

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Domande scomode sul Risorgimento italiano

Domande scomode sul Risorgimento italiano

18 Novembre 2007

L’idea di fondo è che il
Risorgimento sia il pezzo più maltrattato della nostra storia recente.
L’argomento dove l’agiografia dilaga a cominciare dai sussidiari, zeppi, scrive
l’autore, Gigi Di Fiore, giornalista de Il
Mattino
, già al Giornale stagione
Montanelli, “di invenzioni, abbellimenti e superficiali spiegazioni su ciò che
accadde tra il 1848 e il 1870”. Vicende quindi da rivisitare a fondo, forse
addirittura da riscrivere in toto.Di Fiore in effetti vede nero. Nero pece. Non
gli piace quasi nulla della vulgata patria.

A mazzate tratta gli eroi della
tradizione, tutti all’incirca, mascariati o da mascariare.

Del tessitore, ovvero Camillo
Benso conte di Cavour, vede essenzialmente il lato furbesco e bassamente
machiavellico. Di Peppino Garibaldi l’attendismo accanto qualche leggerezza
amministrativa, ma soprattutto denuncia, durante la spedizione dei Mille, il
gioco sporco degli inglesi. La solita perfida Albione, già prima delle camici
rosse, aveva maturato “la convinzione che sulla penisola sarebbe stato meglio
intrecciare rapporti preferenziali con un grande Stato in grado di bilanciare
la potenza francese, piuttosto che avere a che fare con gli ostinati e
imprevedibili Borboni”. Già perché verso Franceschiello e suoi antenati la
parola dolce è d’obbligo.

Del re, fresco di trono, Di Fiore
canta il fermo atteggiamento durante l’estrema resistenza nella fortezza di
Gaeta e semmai depreca il giovanile buon cuore davanti ai tanti traditori che
lo circondano.

Di episodi di voltagabbanismo il
libro è ricco. Gli esempi raccontati veri e demoralizzanti.

In effetti il Belpaese nasce
anche grazie alla gran profusione che gli uomini del Conte fanno di promesse,
prebende, onori e cariche. Fra i napoletani un’indigestione. Risultato: quasi
l’intera flotta cambia casacca e fra l’esercito la voglia di ricacciare
indietro gli “invasori” italiani è troppo spesso sorprendentemente incerta.

Di Fiore stila un’autentica lista
della spesa delle cose che non vanno. Dei plebisciti con cui le popolazioni
liberate si uniscono al Piemonte prima e poi al Regno d’Italia racconta il
carattere  misto fra truffaldo e bulgaro.
In special modo negli ex domini borbonici. Tanto che a urne ancora calde sul
continente esplode il brigantaggio, mentre%2C qualche anno dopo, nel 1866, a
Palermo è rivoluzione per sette giorni e mezzo.

Ma se sotto il Garigliano la
situazione è brutta, non è che altrove si possa star allegri.

La liberazione di Venezia
assomiglia da vicino a un pasticcio diplomatico-miliare. Il neonato esercito
unitario finisce, per imperizia dei comandi, sbeffeggiato a Custoza, la potente
flotta mortificata a Lissa.  E ancora la
città eterna presa con l’astuzia e praticamente senza colpo ferire.

Vent’anni e rotti, dalla debacle
di Novara del 1849 al Porta Pia del 1870, così, così.

Dove i meriti dei vincitori non
sembrano tanto al di sopra delle pecche degli sconfitti. Il nuovo Stato,
insomma, grossomodo un gigante dai piedi d’argilla. Una costruzione precaria
tenuta assieme ricorrendo troppo spesso a misure eccezionali, stati d’assedio,
eccetera, eccetera. Ma soprattutto una rivoluzione che, almeno in parte, è
stata “guerra civile tra italiani, soprattutto al Sud”.

Di Fiore si mette nei
panni dei vinti e ne illustra le dimenticate virtù. A cominciare da un certo
garbo, misto di tolleranza e spossatezza, tipico di universi ancora
perfettamente ancien regime. Un tratto di stile, condensabile nella fedeltà a
valori in via di estinzione, che la nuova Italia recide troppo e, troppo
rapidamente, di netto.

Gigi Di Fiore, Controstoria d’Italia. Fatti e misfatti del
Risorgimento
, Rizzoli, pp. 464, euro 19,50.