Dopo 150 anni, fatta la storia d’Italia bisogna fare anche quella degli italiani

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Dopo 150 anni, fatta la storia d’Italia bisogna fare anche quella degli italiani

02 Maggio 2010

Gli italiani? Furbi e creativi. I francesi? Superbi e raffinati. I tedeschi? Precisi e un po’ noiosi: non c’è popolo che non possa vantare un articolato bagaglio di stereotipi, positivi e negativi, che ormai da secoli hanno contribuito a delineare il loro carattere nazionale. Se nel linguaggio corrente la nozione di carattere nazionale viene di frequente assimilata a quella di identità nazionale, si tratta in realtà di concetti diversi e non sovrapponibili: "Si può dire che il carattere nazionale tende a riferirsi alle disposizioni ‘oggettive’, consolidate (un insieme di particolari tratti morali e mentali) di una popolazione, mentre l’identità nazionale, espressione coniata più di recente, tende ad indicare una dimensione più soggettiva di percezione e di auto-immagini che possono implicare un senso di missione e di proiezione nel mondo". Una recente, ponderosa ricerca della storica Silvana Patriarca, docente alla Fordham University di New York, ha cercato di ricostruire la genesi del discorso sul carattere nazionale italiano a partire dalla fine del Settecento.

"Dai primi anni Novanta del secolo scorso – scrive Patriarca – l’interesse degli italiani per la questione dell’identità nazionale, stimolato inizialmente dalla crescente visibilità della Lega Nord sulla scena politica e dai suoi virulenti attacchi all’unità della nazione, è stato notevole e non accenna a diminuire". Sempre più cittadini "si sono interrogati insistentemente sul significato dell’essere italiani. Anche se forse non hanno ancora la certezza di essere una vera nazione, molti sono tuttavia convinti di avere un carattere nazionale, e del fatto che questo carattere non fa una bella impressione". Secondo molti italiani, infatti, sarebbero soprattutto i difetti ad aver forgiato il nostro carattere nazionale al punto da poter spiegare, attraverso di essi, "gran parte degli attuali problemi politico-sociali del paese". Convinzione quest’ultima che vanta una lunga storia e che ci permette di risalire alla stessa origine del discorso sul carattere nazionale.

A questo punto occorre immergersi in quella cultura del tardo Settecento che da una parte vedeva la Penisola quale meta privilegiata per scrittori e studiosi di mezza Europa e, dall’altra, assisteva alla nascita del movimento risorgimentale. I racconti dei viaggiatori stranieri raffiguravano non senza eccessi gli italiani come indolenti, "moralmente e sessualmente disinvolti, facili a menare le mani e a ricorrere al coltello". Quegli stessi racconti presero a circolare e ad incontrar fortuna anche nel pubblico colto italiano, portato a giudicare con severità le cattive abitudini dei connazionali e a fornire, per opera di eminenti scrittori, un’autorappresentazione nazionale ben poco lusinghiera. La percezione che il carattere nazionale versasse in condizioni drammatiche e che gli italiani avessero bisogno di una completa rigenerazione permeava anche il discorso nazional-patriottico: Balbo e Gioberti accusavano le élite di oziosità mentre Mazzini sosteneva che il vizio principe degli italiani fosse il municipalismo, in altri termini l’attaccamento alla "piccola patria". Per molti si trattava di difetti "storici", frutto cioè degli avvenimenti politici e sociali che negli ultimi secoli avevano travolto la Penisola, vizi che si sarebbe perciò potuto sradicare. "Era stata solo la perdita della libertà – affermò lo storico svizzero Sismondi a proposito della Penisola – a portare corruzione e declino, che si erano aggravati con l’arrivo degli spagnoli e con la dominazione assoluta della Chiesa cattolica".

Anche l’abusata espressione di d’Azeglio "fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani" conteneva indicazioni precise sulla volontà dei "padri fondatori" di liberare gli italiani da quei vizi che li avevano minati nel carattere: la femminilizzazione, all’epoca vero sinonimo di degenerazione nazionale, si era mostrata nel corso delle lotte patriottiche, di fronte alle quali gli italiani si erano colpevolmente sottratti. Nonostante il perseguimento dell’unità politica e l’importanza accordata  all’educazione pubblica, erano in tanti a denunciare ancora gli scarsi progressi del carattere nazionale, sempre macchiato da vizi imperdonabili, tra i quali adesso primeggiava l’individualismo estremo. Pensatori come Marselli e Turiello si convinsero che i difetti dei loro connazionali avessero un’origine "naturale" e non storica da ricercarsi nell’appartenenza alla razza latina.

L’impresa di Libia prima e successivamente la Grande Guerra furono giudicate dagli scrittori nazionalisti come fondamentali occasioni per una redenzione nazionale in grado di dimostrare che gli italiani non erano irrevocabilmente afflitti da quei vizi enumerati da Prezzolini sulla "Voce": "mancanza di disciplina, scarso senso del dovere, negligenza, indifferenza alla responsabilità, mancanza di iniziativa, assuefazione a vivere in mezzo al sudiciume". La guerra, secondo Mussolini, aveva generato una nuova élite forgiatasi nelle trincee del conflitto mondiale: la "trincerocrazia", insomma, richiamava i pregi degli italiani, già emersi nel corso della millenaria storia della Penisola. Accanto ad essi persistevano tuttavia non poche pecche che il fascismo avrebbe contribuito ad erodere dando finalmente vita ad un "nuovo italiano".

Se il regime si era proposto di sradicare lo "spirito borghese" dalla vita civile e morale del paese, l’opposizione antifascista aveva visto nella dittatura mussoliniana l’affermazione di quei difetti dai quali gli italiani sembravano non riuscire ad emanciparsi: il fascismo, per dirla con Gobetti, era soprattutto "l’autobiografia della nazione" che metteva a nudo "le vecchie malattie dell’Italia immatura". Per Gramsci, inoltre, il mussolinismo chiamava in causa l’educazione gesuitica degli italiani e l’arretratezza di una borghesia "chiacchierona, vanitosa, vuota". Nel Dopoguerra non poca fortuna incontrò il mito degli "italiani brava gente": si trattava di uno stereotipo autoassolutorio ad uso e consumo di un popolo che desiderava professarsi innocente rispetto alla politica del  ventennio. Per questa vulgata i gerarchi non potevano che assumere i tratti di una classe dirigente sostanzialmente aliena al vero carattere nazionale.

Insomma, viene da chiedersi se l’incarnazione dell’italiano autentico sia quell’Alberto Sordi – cui il libro dedica pagine acute – assurto ad icona del carattere nazionale: mammone, opportunista, allergico alle regole e sempre pronto ad arragiarsi, egli raffigura molti di quei difetti già ravvisabili agli albori del discorso sul carattere nazionale. Può anche darsi, spiega Patriarca, che si tratti di vizi diffusi tra gli italiani; tuttavia, il discorso nazionale è stato ed è ancora lo strumento di una certa concezione patriottica e nazionalista, diffusa anche in altri paesi, che tende ad omogeneizzare le comunità generalizzandone i tratti. Le generalizzazioni "tendono a oscurare, a volte di proposito, le responsabilità di determinati individui, gruppi e istituzioni" e danno credito "a discutibili diagnosi di eccezionalismo nazionale, eccezionalismo che è di norma una ricetta per cattive spiegazioni e cattiva politica". E pensarsi immutabilmente inchiodati al nostro destino di italiani vanificherebbe anche ogni ipotesi di cambiamento.

Silvana Patriarca, Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, pp. 317, euro 22.