Dopo 4 tentativi falliti e 210 giorni senza governo il Belgio è in ginocchio
14 Gennaio 2011
Ventesima economia mondiale. Paese sede della Commissione Europea e del quartier generale della NATO. Membro fondatore UE. Siamo in Belgio, nel cuore dell’Europa, dove è in atto una profonda crisi politica nella generale indifferenza dell’opinione pubblica europea. Un Paese spaccato a metà, con al centro la capitale d’Europa.
Il Belgio è senza un Governo da oltre 210 giorni, record negativo in Europa. Alle elezioni del 13 giugno scorso, sotto lo shock generale degli osservatori, risultarono vincitori (27 seggi) gli autonomisti della Nuova Alleanza Fiamminga (N-VA) guidati da Bart de Wever, battendo per un seggio il Partito Socialista di Elio Di Rupo, il più votato dalla comunità vallone. La N-VA divenne sia il primo partito fiammingo che la principale forza politica a livello nazionale. I due leader politici non trovarono un accordo comune utile alla formazione dell’Esecutivo; giocoforza il Re Alberto II diede mandato al Primo Ministro Yves Leterme di rimanere in carica per lo svolgimento degli affari correnti.
Da giugno ad oggi sono falliti 4 tentativi di negoziato; l’ultimo è stato bruciato pochi giorni fa allorché Vande Lanotte, indicato dal Re come mediatore, ha rimesso il mandato nelle mani del sovrano. Lanotte ha riassunto con una battuta l’impasse politica belga: “C‘è un vecchio proverbio inglese che dice: ‘puoi portare un cavallo alla fonte, ma non puoi costringerlo a bere’. Questo detto riassume i limiti di ogni missione di riconciliazione”.
Ma quali sono i nodi del contendere? Nel 1993 fu emendata la Costituzione ed il Paese assunse la forma di Stato federale, suddiviso in tre entità amministrative autonome (le Fiandre, la Vallonia e Bruxelles-Capitale) e avente tre lingue ufficiali: francese, olandese, tedesco (la comunità tedesca viva al confine con la Germania).
La comunità fiamminga, tradizionalmente vicina ad uno spirito autonomista sul modello olandese-tedesco, intenderebbe applicare con rigore il principio di sussidiarietà, limitando il più possibile il ruolo dello Stato federale e chiedendo quindi maggiore leva regionale su un’ampia serie di temi, tra i quali la sicurezza sociale. “Il Belgio è uno Stato fallito e non ha più nessun futuro”, ha sentenziato recentemente De Wever. Il sentire della comunità vallone invece propende per uno Stato centralista, su impronta francese. I neerlandofoni vorrebbero spingere la riforma federalista ad uno stadio ulteriore; i francofoni al contrario premono per il mantenimento di materie di competenza esclusiva dello Stato centrale (quali politica estera, difesa, giustizia). Ora, le forze politiche stanno cercando di trovare un accordo su di un testo di revisione costituzionale, proprio per ampliare i poteri delle regioni.
Nato come un problema di politica interna, la crisi attuale (ben peggiore della crisi del 2007) potrebbe presto divenire argomento di discussione in altri Paesi europei, dove forti emergono le istanze autonomiste di alcune regioni, dall’Italia alla Spagna. Il sistema federalista belga è sempre stato usato come modello di riferimento per i fautori di un federalismo efficiente, bilanciando le esigenze autonomiste con le prerogative tipiche di uno Stato centrale. Le sofferenze belghe, apparentemente strutturali, potrebbero portare nuova linfa ai movimenti autonomisti radicali sparsi per il continente.
Inoltre, la precaria situazione politica rischia di avere ripercussioni sulla salute finanziaria del Paese. Lo scorso dicembre l’agenzia di rating Standard&Poor’s ha annunciato che, qualora l’impasse politica dovesse continuare e l’Esecutivo non fosse in grado di rispettare le politiche di rientro di deficit e debito pubblico, potrebbe operare un downgrade sulla valutazione (AA+) del debito pubblico – circa il 100% del PIL.