Dopo cinque anni l’Iraq non è ancora il paradiso, ma prima era un inferno

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Dopo cinque anni l’Iraq non è ancora il paradiso, ma prima era un inferno

22 Marzo 2008

Io sono sempre lo stesso, non muto di pensiero. Voi siete incostanti poiché propendeste ad abbracciare il mio consiglio quando i vostri interessi fiorivano intatti, mentre ora, provati dai sacrifici, ve ne pentite. (Pericle)

Le guerre non sono mai state facili da giustificare. Perfino nelle culture eroiche, gli uomini e le donne all’inizio plaudono alla guerra ma poi si stancano presto. Anche questa guerra irachena all’inizio era popolare. Era stata autorizzata e poi lanciata all’ombra dell’Undici Settembre. Durante i cinque lunghi anni in cui l’America è rimasta sul campo iracheno, però,  la guerra è diventata sempre più un oggetto a sé stante.

C’è stato un momento pericoloso, all’inizio del 2007, in cui la guerra era al suo culmine e il suo ideatore decise di alzare la posta e prendere tempo. Bene, i sondaggi – questo conflitto potrebbe passare alla storia come il più misurato dai sondaggisti – ci dicono ora  che due americani su cinque vogliono che lo sforzo in Iraq prosegua.

La svolta è arrivata con la famosa “surge”. La nuova politica era caratterizzata dallo stoicismo e dall’accettazione rassegnata dei fardelli della guerra. Una volta tanto non c’è stata nessuna promessa di facili successi. “La vittoria non assomiglierà a quelle che hanno conseguito i nostri padri o i nostri nonni”, ha dichiarato il Presidente George W. Bush annunciando la sua nuova politica circa quattordici mesi or sono, aggiungendo: “non ci sarà nessuna cerimonia degli sconfitti sul ponte di una nave da guerra”.

In Iraq gli americani erano circondati da nemici sicuri fin dall’inizio che la grande potenza straniera fosse destinata a fallire. Questa gente, però, non ha goduto della soddisfazione di un frettoloso ritiro Usa. Nel frattempo gli interessi in gioco sono cresciuti: stavamo sotto lo sguardo attento di popolazioni dall’occhio allenato a riconoscere la debolezza degli stranieri. La mente che ha lanciato questa guerra ha fatto una scelta giusta ed appropriata  non arrendendosi.

Parlando da Nashville, nel Tennessee, all’assemblea delle Stazioni Religiose Nazionali lo scorso undici marzo, il Presidente Bush ha difeso ancora una volta la guerra in Iraq: “La decisione di rimuovere Saddam Hussein dal potere presa all’inizio del mio mandato presidenziale si è rivelata una scelta giusta; è ancora adesso una scelta giusta e lo sarà per sempre”.

Bush ha fatto della libertà nei paesi arabi e islamici la sua causa. Si è rifiutato di credere a chi diceva che gli arabi non posseggono il “gene” della libertà e che sono quindi destinati a vivere sotto il giogo delle tirannie. “Il valore della libertà non è soltanto nostro”, ha dichiarato a Nashville. “La libertà non è il dono americano al mondo; è il dono di Dio a tutta l’umanità”.

Questa è stata la scommessa di Bush da quando la caccia alle armi di distruzione di massa si è arenata e la guerra e i sacrifici che richiedeva dovevano essere difesi e fortificati. Date a Bush quello che è di Bush: ha creduto nel suo motto secondo cui la libertà avrebbe potuto attecchire sul suolo arabo, anche a dispetto di grossi dubbi e cattivi presentimenti.

Durante i cinque anni in cui l’America è rimasta in Iraq, questo tedioso conflitto rassomigliava sempre di più ad una battaglia tra gli Stati Uniti e la legge della gravità. Il settarismo ha messo a dura prova il nostro territorio e la nostra pazienza; la furia dei paesi limitrofi si è rivelata senza fondo. Le loro malefatte si sono riversate sul suolo iracheno. Volevamo una nuova vita per quella nazione, ma esistevano odi settari aldilà della nostra comprensione.

Da parte nostra dobbiamo ammettere che non abbiamo sempre combattuto questa guerra saggiamente e con destrezza. Ci è voluto un po’ di tempo per piazzare sul posto i giusti comandanti e i diplomatici adeguati. Non avevamo gli interpreti che ci servivano e questo perché gli anni novanta non ci hanno preparato a combattere le culture e le ideologie.

Anche dal punto di vista burocratico – Dipartimento di Stato e CIA – c’erano persone che nutrivano seri dubbi in merito alla saggezza del conflitto. Addirittura alcune delle persone mandate a Baghdad non avevano una grossa considerazione del progetto iracheno.

Ciononostante, cinque anni dopo, questo sforzo in Iraq sta dando i suoi frutti. Il merito va in gran parte all’esercito americano. Nella loro stoica accettazione della missione impostagli e grazie alla pietà che hanno dimostrato quotidianamente agli iracheni, i nostri soldati hanno fornito l’esempio di un’amministrazione generosa. (Durante i miei svariati viaggi fuori e dentro l’Iraq nel corso degli ultimi cinque anni, ho sentito parlare veramente poco di Abu Ghraib. Le gente ha capito che Charles Graner e Lynnie England erano psicopatici che rappresentavano l’eccezione alle norme militari americane).

In questi cinque anni, l’impalcatura stessa della guerra ha spesso vacillato sotto i colpi della critica. La gente metteva in dubbio l’esistenza di un collegamento tra al-Qaeda e Saddam, si diceva che non c’erano prove  in tal senso e che l’invasione in Iraq aveva trasformato quel paese in un terreno fertile per i jihadisti.

Solo che chi cercava prove del genere non capiva che la distinzione tra terrorismo laico e religioso non aveva ragion d’essere sullo sfondo del panorama arabo. L’impulso che ha portato l’America da Kabul a Baghdad era corretto. Erano stati gli arabi radicali ad attaccare il suolo americano l’Undici Settembre, si doveva perciò lanciare una guerra di deterrenza contro il radicalismo arabo.

Baghdad era proprio il giusto indirizzo di questa guerra, visto che in questo modo si lanciava un messaggio ai sovvenzionatori del terrorismo: ci sarà un prezzo salato da pagare per chi aiuta e favorisce questa gente. È stata una scelta di Saddam – e anche il suo destino – quella di non tenersi a distanza di sicurezza all’indomani dell’Undici Settembre. Non siamo ancora riusciti a riparare completamente i danni che allora i fondamentalisti causarono. Lo spettacolo offerto dalla sconfitta del dittatore, però, e il suo sguardo mentre veniva mandato al patibolo, hanno fatto meraviglie sulla tempra degli arabi radicali.  

Quindi, è vero: non abbiamo trasformato Baghdad in una città democratica appollaiata su una collina, e abbiamo invece appreso che la distruzione della tirannia sunnita ha lasciato nelle mani  dei nipoti degli sciiti la supremazia sul mondo arabo. Nonostante questo, però, abbiamo assistito alla nascita di una nazione senz’altro migliore, e l’ostetrica era un’americana. Non che si possa parlare di una democrazia senza difetti. Paragonatela, però alla prigione dell’epoca Saddam, alla tirannia siriana della porta accanto e alle regole mediorientali in generale; in questo modo si può avere un’idea orgogliosa di quello che l’America ha compiuto a Baghdad.

Non è uno Stato sciita quello che stiamo supportando. La verità è che una maggioranza sciita è stata emancipata da una lunga storia di servitù e paura.  Gli iracheni sciiti ci hanno fatto sapere in tutti modi che la loro patria non sarà mai una “repubblica gemella” della teocrazia persiana che esiste ad oriente. Semmai i custodi del potere politico in Iraq hanno segnalato le loro intenzioni a lungo termine: Una estesa presenza americana tra di loro e la nascita di uno Stato petrolifero nell’orbita del potere americano.

Dietro allo questo sforzo americano ci sono progettazione e talento. I sunniti hanno avuto tutto ma d’altra parte hanno anche sciupato le loro chance di contare nel nuovo ordine di cose. La strategia americana negli anni passati era volta ad attutire la sconfitta sunnita. Gli Usa ora come ora sostengono  una grande forza di “volontari”, i Figli dell’Iraq, perlopiù tirati fuori dalla comunità sunnita. Anche se questo non è stato concordato con il governo sciita, il tentativo di creare un bilanciamento tra le due comunità è stato al contempo ponderato e saggio.

Allo stesso modo il potere americano ha dato ai Curdi la protezione ed una chance storica di diventare parte di un vicinato che ha fin qui, per la verità, soffocato tutti i loro sogni d’indipendenza. Ma è stato mandato anche un messaggio a questa gente: le condizioni per questa protezione consistono in una politica di sobrietà ed impegno al federalismo dell’Iraq. Non abbiamo re-inventato questa vecchia e tormentata nazione, ma questa guerra rappresenta la prima possibilità che gli iracheni hanno di emergere da una storia di  truffe e despotismo.

Nel corso degli ultimi cinque anni, la passione è sfiorita sia nei cuori dei difensori del conflitto che in quelli dei suoi detrattori. Lì in Iraq ci sono i nostri soldati ed i nostri diplomatici, ma il pubblico a casa ha spostato la sua attenzione su altri interessi. Però la gente vuole che il tempo sufficiente a portare a termine la missione sia garantito una volta per tutte. In America non siamo abituati ai fardelli dell’imperialismo e alle acquisizioni di terre lontane. Gli americani, però, hanno certamente capito che le sponde del mare nel Golfo Persico sono troppo importanti per essere lasciate alla rovina nelle mani di schifosi dittatori.

© Wall Street Journal

Traduzione Andrea Holzer

Fouad Ajami, vincitore del Premio Bradley, insegna alla School of Advanced International Studies della John Hopkins University. È l’autore di “The Foreigner’s Gift” (Free Press, 2006).