Dopo Eluana tutti d’accordo: serve una legislazione anche per morire
04 Agosto 2008
Venerdì pomeriggio con l’approvazione del conflitto di attribuzione da parte del Senato si è chiuso un atto della partita politica che si sta giocando intorno alla vicenda di Eluana Englaro.
In altre occasioni ci siamo sforzati di spiegare i termini giuridico-politici della questione e la posta in gioco. Abbiamo sempre sottolineato il necessario distacco tra la sfera privata di questa tragedia che impone il rispetto per la scelta dei singoli e le sue ricadute nella dimensione della pubblica convivenza civile che implicano l’interesse obbligatorio da parte di chi si occupa di politica per vocazione o per mandato degli elettori.
Oggi non ci ripeteremo. Ci sforzeremo piuttosto, al termine di un atto importante di questa vicenda e mentre la partita è ancora in corso, di analizzare quali sono state le incredibili dinamiche politiche che essa ha determinato. La prima e forse la più importante è che la sentenza della Corte di Cassazione, per le sue ricadute pratiche – possibilità di desumere la pregressa volontà da indizi sullo stile di vita; classificazione di alimentazione e idratazione come cure; inversione dell’onere della prova per cui il medico senza consenso informato in condizioni estreme si trova nella impossibilità di curare – ha messo fine all’illusione che le vicende legate alla vita, alla morte e alla determinazione di quel sottile confine che le separa possano restare al di fuori della sfera pubblica, affidate all’antica sapienza dell’arte del vivere e allo scontato rispetto e pietà per i più deboli.
La politica ha dovuto prendere atto che ormai intorno a queste categorie non esiste più un comune sentire e che tale inedita situazione travalica gli antichi steccati che dividevano un tempo laici e cattolici. Per questo si è mobilitata come mai in passato, giungendo a sollevare un conflitto di attribuzione, pur sapendo i loro promotori che assai difficilmente esso potrà avere la ragione che pure astrattamente meriterebbe. Per questo, per una volta, nessuno, proprio nessuno, ha potuto accusare la Chiesa di invadenza indebita. E’ stata la politica a muoversi nella sua autonomia, comprendendo quasi istintivamente che se non lo avesse fatto avrebbe rinunciato a qualcosa della sua essenza.
Questa nuova realtà ha un risvolto tangibile. La sentenza della Cassazione ha determinato una svolta di tale portata per cui anche i più restii hanno dovuto ammettere la necessità di giungere a una legislazione sul "fine vita".
Quanti, da liberali, ritenevano di dover evitare questo passo per salvaguardare dalla normazione una sfera nella quale la diversità delle situazioni mal si concilia con l’astrattezza della legge e quanti, da cattolici, temono che le dichiarazioni anticipate di volontà possano introdurre la categoria della disponibilità della propria esistenza, devono oggi riconoscere che la situazione che si potrebbe venire a determinare attraverso il consolidamento della sentenza della Cassazione travolge le loro preferenze e dunque le loro remore. Per questo si è affermata ormai l’idea che una legislazione serve. Da ultimo lo ha ammesso anche il documento di Scienza e Vita, da sempre scettica su questa prospettiva.
Ormai la discussione non è più "legge sì o legge no", ma verte sull’estensione, i contenuti e i concreti punti di caduta che la normativa dovrà avere. Lungo questa nuova frontiera un punto di partenza è sicuramente costituito dall’unità che in occasione del conflitto di attribuzione il Popolo della Libertà è riuscito ad assicurare. I gruppi parlamentari si sono ritrovati uniti per la quasi totalità. E i casi di dissenso si sono contati sulle dita di una sola mano. La distinzione tra laici e cattolici è degradata a una questiome di accenti e di sfumature. Alla Camera è stato il laico Fabrizio Cicchitto a pronunciare la dichiarazione finale a favore dell’elevazione del conflitto. Al Senato un altro laico, Carlo Vizzini, è stato addirittura il relatore della proposta.
Non c’è dubbio che questo risultato si è realizzato anche perché i profili di metodo relativi all’invadenza del potere giudiziario in un ambito chiaramente legislativo hanno ricoperto una grande importanza. Ma è altrettanto evidente che il risultato raggiunto è un buon punto di partenza per provare a trovare un accordo anche nel merito e rendere il PdL autosufficiente nel tragitto che dovrà portare all’approvazione della legge. Ciò non significa che non debbano essere ricercate aperture. Verso l’Udc queste si propongono senza forzature. Nei confronti delle opposizioni di sinistra, invece, il problema si presenta più complesso. Di fronte all’iniziativa assunta dal PdL, infatti, il travaglio del Pd è stato incommensurabilmente più grande di quello dei suoi avversari. E’ venuta fuori tutta l’ambiguità del dibattito sul modo di intendere la laicità, senza far chiarezza sul quale le diverse anime confluite nella nuova formazione difficilmente possono stare insieme. La scelta di non votare ha rappresentato un compromesso risicato nel quale, in ogni caso, a prevalere sono stati coloro i quali all’interno del Pd non sono disposti a confondere laicità e laicismo.
E’ verso di loro che il PdL in Senato ha deciso di lanciare un segnale di disponibilità. La scelta di non partecipare al voto sull’ordine del giorno presentato dal senatore Zanda che richiedeva una legge entro il 2008 non è stata – come ha erroneamente scritto Eugenio Scalfari su Repubblica – né uno scambio né una concessione. Essa è nata da una duplice ragione: quella di sottolineare l’importanza di un documento in cui per la prima volta il Pd dichiara apertamente la propria indisponibilità nei confronti dell’eutanasia, e quella di trasformare il non voto in un’apertura piuttosto che nella sorda contrapposizione che avrebbe desiderato l’ala laicista del partito.
Non sarà facile ma forse una parte del Pd potrà essere coinvolta nella scrittura di una legge che a questo punto si presenta come una delle tappe importanti di questa legislatura. Non dovremo attendere molto per saperlo. E’ poi probabile che coloro che vorrebbero utilizzare una sentenza per chiudere la partita cercheranno di stringere i tempi per arrivare a un rigetto della sospensiva per quanto riguarda il decreto della Corte d’Appello di Milano e il relativo ricorso della Procura generale, e a una dichiarazione di inammissibilità del conflitto di attribuzione emessa già il prossimo 28 agosto. Ma anche se questo scenario fosco dovesse concretizzarsi, la politica ormai non può più fare a meno di assumersi le sue responsabilità. A settembre inizia un nuovo e decisivo atto.