Dopo il declassamento di S&P’s è tempo di tornare a parlare di economia

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Dopo il declassamento di S&P’s è tempo di tornare a parlare di economia

Dopo il declassamento di S&P’s è tempo di tornare a parlare di economia

20 Settembre 2011

Mentre Moody’s ha rinviato a fine ottobre la valutazione se si debba o meno togliere una A dal rating del nostro debito pubblico, che ha ancora 2 A, Standard&Poor’s ha degradato il rating dell’Italia a causa della sua instabilità politica. Questo giudizio ci aiuta a capire perché nonostante una pesante manovra di finanza pubblica, che dovrebbe portare al pareggio del bilancio nel 2013, il tasso di interesse sui nostri titoli tenda a oscillare vero l’alto, anziché verso il basso. E quindi perché lo spread fra i nostri titoli e i Bund tenda a schizzare verso i 400 punti e a oltrepassarli, salvo quando la Bce ne effettua acquisti sul mercato secondario, ossia fra quelli già esistenti e non sulle nuove emissioni.

In gran parte la valutazione espressa da Standard&Poor’s era già incorporata nella valutazione dei mercati. In Italia si è scatenata una campagna da parte rilevante dei maggiori giornali collegati a Mediobanca e da parte della Confindustria e di esperti ad essi connessi nonché della intersa sinistra ex comunista ed ex sessantottina rivolta a screditare la manovra con affermazioni contraddittorie, senza soluzioni alternative credibili e strumentale all’iniziativa politica rivolta a modificare gli attuali equilibri – espressi dai risultati elettorali – con una campagna persecutoria nei confronti del premier per farlo dimettere, con argomenti di natura personale.

E’ difficile capire se le esternazioni fatte a borsa aperta hanno o meno generato variazioni nei corsi dei titoli, ma è certo che se il premier fosse costretto a dimettersi, o fosse accompagnato dai carabinieri a Napoli a testimoniare come teste reticente o fosse condannato in primo grado a Milano in un procedimento che, comunque, si estinguerebbe due mesi dopo per prescrizione, il tasso di interesse sui nostri titoli sul mercato secondario salirebbe di colpo, di parecchio, ridimensionandosi un po’ nei giorni seguenti, con notevoli guadagni per chi conosce le notizie riservate e per chi genera la dilatazione artificiosa delle loro conseguenze sulla scena politica.

Penso che a parecchi, negli ambienti giornalistici, politici e finanziari italiani, il rinvio ad ottobre di Moody’s sia dispiaciuto. Invece saranno contenti di quello di Standard&Poor’s perché volevano un verdetto negativo ora, per dare forza alla richiesta che Berlusconi “vada a casa”, come dice il leader del Pd Bersani. Ciò detto occorre chiarire che, comunque, è naturale che il cosiddetto spread sui Bund sia aumentato, rispetto al passato, perché esso riflette un aumento del tasso di interesse che deriva sia dalla maggiore inflazione attesa, sia dallo squilibrio fra domanda e offerta di risparmio. Ma in questa situazione di aumento dei tassi dovuto a fattori oggettivi, si è inserita una campagna politica denigratoria che genera un aumento del tasso, anziché un a diminuzione, rispetto al livello dei primi di agosto come sarebbe ragionevole, se ci si limitasse a considerare senza paraocchi l’effetto macro economico della manovra di finanza pubblica.

L’Italia è il paese di Maramaldo. E’ il paese ove molti sono disposti a perdere un occhio se questo serve a far si che lui, Berlusconi, ne perda due. Ora si chiama Berlusconi, una volta si chiamava Craxi, ma la storia si ripete e, con un po’ meno di capelli, e la schiena più curva, coloro che nutrono odio e invidia e ambizione, i Catilina sono gli stessi. In queste circostanze, lo spread è persino troppo basso. Mi pare però che sarebbe opportuno che si considerasse il tasso di interesse sui nostri titoli pubblici, in relazione al tasso di inflazione e al gravame fiscale, e non in relazione a quello strano termometro che è l’andamento attuale del Bund rispetto a quello passato.

Uno degli imbarbarimenti della cultura economica e finanziaria di quest’epoca è costituito dal fatto che non si considerano più i valori assoluti, la sostanza delle cose, ma le variazioni, le percentuali di mutamento. Dai valori soluti si è passati a quelli relativi, al relativismo. E quelli che praticano questa pseudo scienza sono molti e in numero crescente, in questo modo non si occupano più della sostanza delle cose di lungo e medio termine, si occupano invece di ciò che accade giorno per giorno, nel breve termine con l’orizzonte limitato al giorno dopo, al fine settimana. Questa considerazione si applica a molti aspetti della situazione e della dinamica delle economie, ma in particolare alla nuova mania, consistente nel considerare il cosiddetto spread (in italiano differenza) fra il tasso di interesse sui nostri titoli e sui Bund tedeschi, non come evento reale, ma come valutazione di borsa, delle varie ore delle varie giornate. E sulla base di questo indice, a cui si attribuiscono significati razionali straordinari, direi mitici, si giudica se una manovra economica sia giusta o sbagliata, se un governo stia gestendo o male la crisi e si fanno elucubrazioni sulla sostenibilità del nostro debito pubblico e paragoni con la situazione di quello greco. Ma di che cosa stiamo parlando? Questa variazione che cosa rappresenta e che cosa indica? 

La variazione in questione non è un vero indice, è un indizio di ciò che ci interessa. E ciò che ci interessa è la remunerazione del nostro debito pubblico, cioè il suo tasso di interesse. Il rapporto con il Bund tedesco non è come il rapporto di una grandezza con il metro, che è immutabile, in quanto il livello degli interessi sui Bund può aumentare o scendere per varie ragioni. E se il tasso dei Bund scende perché tutti li comprano lo spread può aumentare, anche se la remunerazione, cioè il tasso di interesse sui nostri titoli è scesa. Lo spread di 380 punti può voler dire che il tasso di interesse sui nostri titoli è 5% oppure che è il 5,3% a seconda di come si comportino i Bund. Reputo che uno spread attorno al 3,5-3,8 %ossia di 350-380 punti, nelle condizioni attuali, in quanto implica un tasso di interesse poco sopra il 5%, sia normale. Non patologico.

In economia i miracoli non esistono. E dato che l’inflazione in Europa supererà mediamente il 2%, un tasso di interesse su titoli a sette o dieci anni del 5,3% implica un remunerazione reale attorno al 3%. Cioè un compenso che in passato era ritenuto quello minimo per il risparmio, in un’epoca in cui la domanda di risparmio non era molto superiore alla sua offerta. Ma un investimento rischioso, a causa della scarsa solvibilità dell’Italia, a sua volta causata dal fatto che il premier Berlusconi è sotto processo o parte lesa, in prevedimenti riguardanti donne compiacenti (in inglese escort), ma a causa del fatto che il risparmio ha un suo compenso “naturale”, in mancanza del quale si riduce ed esita a trasformarsi in impiego. E allora i Bund?

La risposta è che questi titoli pubblici tedeschi, ancorché a medio lungo termine, come gli equipollenti italiani di sette e dieci anni, sono considerati un “bene rifugio” equivalente a moneta liquida o a lingotti d’oro e quindi si comprano e tengono non in vista del loro tasso di interesse ma della loro funzione di deposito sicuro di valore, comunemente accettato.

 

Ciò detto, il giudizio di Standard&Poor’s si intreccia con la scena politica italiana e ciò può costituire una miscela perfetta con la speculazione al ribasso sui nostri titoli. Il governo pertanto deve attuare le politiche strutturali che Standard&Poor’s lamenta che non vengano ancora attuate e che sono nel programma e nel DNA del PDL. Vale a dire l’innalzamento dell’età pensionabile per dimezzare strutturalmente il disavanzo pensionistico che raggiunge quasi 5 punti di Pil, un ampio programma di vendita di immobili pubblici e di privatizzazioni, con priorità a quelle delle ex municipalizzate e alle Poste, Anas e Ferrovie, un riforma fiscale diversa da quella progettata da Tremonti, che punti per l’imposta sul reddito sul quoziente familiare e dia priorità alla riduzione dei costi fiscali del lavoro e del reddito di impresa, aumentando le imposte indirette. Deregolamentazioni, l’avvio di programmi di investimento pro crescita nella banda larga, energie rinnovabili, ponte sullo stretto, TAV. Programmi in grandissima parte finanziati sul mercato. Questa è la riposta a Standard&Poor’s e all’offensiva mediatica, politica, giudiziaria.