Dopo le macerie del 900 urge una rifondazione etica
20 Gennaio 2008
Il ‘900 è stato il secolo delle ideologie, delle “idee assassine” e della violenza, ma anche l’età delle nuove fondazioni scientifiche, epistemologiche, filosofiche. Nuove fondazioni e, a dire il vero, decostruzione di antiche fondazioni ritenute non più cogenti e attuali. L’apertura del nuovo secolo che abbiamo appena incrociato, senza coglierne ancora i tratti peculiari e le sfaccettature più preziose, ridesta la ragione ad una tonalità rifondativa, tutta da definire. La biopolitica, l’eugenetica e, insieme, l’etica che dovrebbe corrispondere, in maniera informata, a questo complesso di problemi, segnalano non soltanto una crisi in corso, ma anche, come nel geroglifico cinese Yin-Yang, un’opportunità. Crisi, del resto, significa scissione-ricomposizione, ferita dell’essere e trascendenza dei limiti della realtà data. L’attualità che si attacca decisamente all’eugenetica, la moratoria sull’aborto e la centralità del diritto alla vita, anzi, di più, al vivere in quanto tale, sono occasioni per ridefinire il tempo che stiamo vivendo, per quel che esso mostra: non sono più sufficienti le “ontologie regionali”, per dirla con Husserl, cioè gli spazi disciplinari chiusi e autoreferenziali.
Urge, ovunque, una rifondazione etica. La politica, oggi, senza una rifondazione rischia di autoreferenzializzarsi fino al punto di apparire una miscela di sciamanesimo istituzionale ed esoterismo partitico. L’Italia, terra di urgenza delle crisi e di ricomposizione di ciò che in logica classica si chiamerebbe impossibilia, offre lo scenario, l’ennesimo, di questa rifondazione necessaria. La dimensione metapolitica, profondamente culturale, nel senso della ricerca di un significato comune, ed etica, come strutturazione di un luogo di verità da riconoscere insieme, è necessaria oggi come il pane e l’aria. Non c’è, più, infatti nutrimento, cioè pane, per la politica senza un passo meta-politico, super-politico, da osservatore che si auto-osserva; e non c’è respiro per la politica senza un atteggiamento di umiltà originaria, nel senso di Tommaso d’Aquino, un radicamento nella realtà viva, che interessa le moltitudini e spinge gli attori politici ad una serrata inchiesta sui dati più semplici, immediati.
Il ‘900 ha “sfondato” il fondamento, mantenendolo in qualche modo in vita, soprattutto attraverso la categoria di rivoluzione e tutti i surrogati laici e secolarizzati della teologia scolastica e di Dio in quanto tale (il marxismo e il comunismo sono tali, secondo Del Noce: la loro permanenza è dovuta anche a ciò); la modernità ci ha ricordato questa storia e non è facile mettersi alle spalle questa storia. Il XXI° secolo, invece, vale a dire la deriva attuale del postmoderno, lungi dal rinchiudersi nell’inaridimento dell’esperienza tout court, rimuove tuttavia le scorie ideologiche, attivando la ragion politica e critica ad una nuova traversata nel deserto, più impegnativa di quelle precedenti, più devota all’ignoto, ma proprio per ciò più affascinante. Il pessimismo della ragione riguarda soltanto gli esteti del politicismo, perché i rifondatori umili sanno da sempre che, di volta in volta, la realtà si incarica di confutare le filosofie dell’Orazio di Shakespeare. D’altro canto, è altresì evidente che il politicismo intransigente, alleato naturale del formalismo delle regole e delle pratiche istituzionali, non riesca più a reggere l’urto di una crisi priva di rapporti strutturali con i fondamenti classici, filosofici, etici. Tale crisi riguarda, infatti, l’idea di uomo e di persona come tale, cioè riguarda tutto e il tutto. Senza più mediazioni e con urgenze inattese fino a ieri. La riflessione sulla cronaca di oggi spinge dunque gli osservatori più attenti e disillusi a camminare umilmente e con circospezione nei territori della parola politica, perché essa risuona oggi come il cembalo che tintinna richiamato da san Paolo. Molto rumore per nulla. In un mondo pieno di voci e con quella perenne incompiuta di fronte a noi: la vita.